All’incontro con Piketty tenutosi la scorsa settimana nella Sala della Regina a Montecitorio c’era un pubblico debordante. Politici, giornalisti, studiosi, studenti, sindacalisti e molti altri, dislocati in due sale e invidiati dai non pochi costretti a rinunciare per assoluta mancanza di posti. Già l’evento in sé meriterebbe un commento che vada al di là dello stupore che il successo di questo libro e del suo giovane autore suscitano. Forse si potrebbe dire che siamo di fronte a un caso clamoroso di eterogenesi dei fini o magari di learning by studying: lo studioso che, tra pochi altri, ha attirato l’attenzione sul fenomeno delle superstar e ne ha in qualche modo illustrato l’estensione si trova ad essere una superstar, anche se del genere migliore. In un momento nel quale le superstar, talvolta senza che si impenni l’ipotetico misuratore dei meriti, fioriscono nei campi più disparati del piacere (o del dispiacere) umano, dai fornelli ai calici di vino, dalle gare canore a quelle letterario-erotiche, ci voleva un vero esperto di superstar per diventare superstar su un tema assai meno mass-mediatico come è quello delle disuguaglianze. E, possiamo starne certi, il rilevatore dei meriti passando dalle parti del Capitale del XXI secolo si impennerà e sussulterà.
A Montecitorio Piketty ha dato nuova linfa alla convinzione che al fondo del suo successo, al di là di quello che ha appreso dai suoi studi e da altro su come si può diventare una superstar, ci sono alcune, poche, lucide idee costruite per successivo prosciugamento di una massa enorme di dati nella quale tutti, o quasi, si sarebbero persi senza estrarne ciò che a lui è riuscito di fare. Illustrando alcuni semplici grafici sulla disuguaglianza e sulla ricchezza Piketty ha dato ai presenti la sensazione che finalmente essi potevano, con immediatezza, impossessarsi del segreto nascosto dietro gli ultimi 100 anni di storia del capitalismo. Ma li ha posti anche di fronte a una preoccupazione dalla quale molti o tutti non erano stati neanche sfiorati in precedenza e cioè che la velocità con la quale si accumula la ricchezza rispetto a quella con la quale cresce il reddito possa portare a un mondo “orribile” di cui nessuno, neanche i più convinti sostenitori delle disuguaglianze “organiche”, può prendere le difese. Ecco, il segreto forse è tutto qui: servendo, con semplicità, conoscenza e preoccupazione, entrambe non facilmente controvertibili, Piketty ha confezionato un prodotto-superstar. E per avere la sensazione di beneficiare di quelle conoscenza e di nutrire quella preoccupazione non occorre leggere circa 1000 pagine, basta toccarle. Naturalmente, se fossero meno di 1000 l’effetto del contatto non sarebbe lo stesso. Per essere credibili, conoscenza e preoccupazione devono occupare molte pagine.
Ogni superstar ha i suoi punti deboli e in generale si tratta di punti deboli che riguardano questioni controverse, cosicchè l’interesse ne risulta accresciuto piuttosto che diminuito. E anche Piketty ha questi punti deboli. Quelli che a noi, sembrano più evidenti sono la non chiara distinzione tra capitale e ricchezza, cioè tra grandezze che seguono logiche diverse e svolgono funzioni diverse nel processo di crescita dell’economia (per Piketty il capitale include, oltre al capitale industriale, inclusi i brevetti e il complessivo capitale intangibile, il patrimonio immobiliare, incluse le prime case, e la ricchezza finanziaria in tutte le sue variegate forme); la difficoltà a inquadrare le tendenze individuate, appunto, in una convincente teoria della crescita; la poco articolata riflessione sulle politiche che potrebbero mettere sotto controllo le preoccupazioni di cui si è detto in precedente.
Tutti questi temi sono risuonati nel bel dibattito che, a Montecitorio, ha fatto seguito alla presentazione di Piketty. In particolare, la preoccupazione per il futuro ha spinto a concentrarsi sulla questione delle politiche. E’ stata così affermata, anche se con enfasi diversa, la necessità di non limitarsi a politiche di redistribuzione ex post imperniate sulla tassazione e sui trasferimenti ma di arrichire l’arsenale con interventi in grado di prevenire (ex ante) il formarsi delle disuguaglianze estreme (sia per la coda alta che la coda bassa). Occorre, cioè, cercare di correggere i risultati ai quali conducono i mercati, adottando quella che è stata definita la strategia della pre-distribution, esplicitamente richiamata, a Montecitorio, da Massimo D’Antoni.
Piketty, nella sua replica finale, si è mostrato del tutto consapevole delle potenzialità della pre-distribution; tuttavia, la sua proposta di policy più articolata, in realtà l’unica, ricade nell’ambito della redistribuzione. Certamente, a ulteriore conferma della personalità di Piketty, si tratta di una proposta non convenzionale: bisognerebbe accentuare fortemente la progressitivà del prelievo, sia rispetto alle singole imposte sia del disegno complessivo del sistema tributario. Più precisamente, Piketty auspica sia un forte incremento delle aliquote marginali più elevate dell’imposta personale sul reddito, sia la complementarità fra l’imposta sul reddito, l’imposta sulle successioni e l’ imposta transnazionale sul patrimonio, che è la sua vera proposta innovativa (e di cui si è occupato Paladini nello scorso numero del Menabò). Inoltre, egli ha sostenuto, riprendendo un tema a lui familiare, che la progressività del sistema tributario avrebbe positive ripercussioni sulla disuguaglianza di mercato, in quanto la previsione di redditi netti più contenuti scoraggerebbe la ricerca della rendita e contrasterebbe anche la tendenza dei manager a impegnarsi in azioni redistributive, a proprio vantaggio, all’interno delle imprese.
Rispetto alla pre-distribution, Piketty si è dichiarato fortemente convinto della necessità di migliorare la qualificazione del capitale umano, attraverso la promozione dell’accesso all’istruzione. Ma la visione della pre-distribution di Piketty appare decisamente meno originale e meditata di gran parte del suo lavoro. Infatti, la prospettiva della pre-distribution, sulla quale torneremo nei prossimi numeri del Menabò, è molto ricca e non si riduce soltanto al capitale umano. Il suo ambito di applicazione va dalla distribuzione delle dotazioni dei singoli individui al disegno delle regole che presiedono al funzionamento dei mercati, e dalle quali dipendono le disuguaglianze che in essi si generano.
Ad esempio, per realizzare un’effettiva eguaglianza di opportunità non basta assicurare il più ampio accesso all’istruzione o attenuare le differenze nella probabilità di prosecuzione degli studi. Recenti studi sulla trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza mostrano infatti chiaramente che anche a parità di titolo di studio – o, addirittura, anche di classe occupazionale – i livelli retributivi raggiunti dai figli risentano fortemente delle caratteristiche delle famiglie di origine, soprattutto nei paesi a più alta disuguaglianza economica, come l’Italia e il Regno Unito. Ciò è dovuto a una molteplicità di fattori: le capacità cognitive acquisite dai figli fin dalla prima infanzia, l’accumulazione delle cosiddette soft skills più remunerative, la migliore qualità degli studi effettuati, l’appartenenza a network sociali più favorevoli. Per attenuare l’effetto di questi fattori è necessaria una pluralità di interventi in grado di assicurare un certo grado di uguaglianza complessiva nelle condizioni sociali (anche mediante politiche dell’istruzione che, però, dovrebbero consentire, fin dalla prima infanzia, a soggetti provenienti da contesti diversi di interagire tra loro).
Va anche ricordato che il capitale umano è solo una delle possibili cause delle odierne disuguaglianze di mercato e, quasi certamente, neppure la principale. Semplici esercizi di scomposizione degli indici di disuguaglianza mostrano che solo una parte esigua della disuguaglianza nei salari – dell’ordine del 10-15% nei principali paesi della UE – è attribuibile al titolo di studio conseguito e che, perlomeno in Italia, negli ultimi 20 anni è costantemente diminuita la capacità delle differenze nei titoli di studio di spiegare la disuguaglianza. Ciò contrasta con l’idea che le crescenti disuguaglianze nei redditi da lavoro siano dovute soprattutto ai diversi skill dei lavoratori, circostanza che le renderebbe probabilmente più accettabili di quanto in realtà esse siano.
Tra le possibili spiegazioni del ruolo relativamente ridotto dell’istruzione rientra, almeno con riferimento ad alcuni paesi tra cui il nostro, quella che rimanda alle distorsioni, anche nell’apprezzamento del merito, prodotte dal capitalismo di relazione, di cui ci siamo già occupati sul Menabò. Troppo spesso, anche nei mercati, non basta essere istruiti: conta anche da dove si proviene. L’origine sociale, anche se fosse neutralizzata come causa di disuguaglianza nell’istruzione, tornerebbe così a esercitare la sua influenza. Da alcune stime risulta che in Italia, a parità di istruzione e di gruppo occupazionale, il figlio di un dirigente riceve una retribuzione che è più alta del 16,2% rispetto a quella del figlio di un operaio; d’altro canto, anche il figlio di un impiegato guadagna il 5,3% in più del figlio di un operaio. Dati molto simili caratterizzano anche il Regno Unito, dove aver frequentato università di elìte, accessibili principalmente a chi ha migliori origini, equivale ad assicurarsi chiari vantaggi retributivi.
Prescindendo dalla questione dello svantaggio sociale, un’altra spiegazione delle disuguaglianze a parità di capitale umano ha a che fare con l’assenza di concorrenza nei mercati o quanto meno con la presenza di una concorrenza dimezzata. Alcuni acquisiscono grandi redditi solo perché operano in mercati potretti da alte barriere che limitano fortemente l’entrata di potenziali concorrenti. Altri si avvantaggiano del potere di redistribuire a proprio vantaggio il reddito generato dall’impresa; è questo, soprattutto, il caso dei top manager della finanza.
Infine, una strategia di riduzione delle disuguaglianze basata sull’accumulazione di capitale umano deve misurarsi con il problema dell’adeguatezza della domanda di lavoro ad assorbire una crescente offerta di lavoratori dotati di elevato capitale umano. Non ci riferiamo qui tanto ai limiti attuali, più strettamente connessi alle politiche di austerità, ma ai rischi legati all’evoluzione strutturale delle nostre economie, ovvero ai motori di fondo che muovono l’economia e che sono al cuore delle preoccupazioni di Piketty. Quei motori potrebbero incepparsi per il rafforzarsi delle tendenze alla stagnazione secolare che molti già oggi vedono profilarsi oppure potrebbero girare troppo velocemente nella direzione del cambiamento tecnologico “risparmiatore” di lavoro. In entrambi i casi il rischio è quello di una sempre più flebile domanda di lavoro, indipendentemente dalla sua qualità. In questo contesto, la maggiore accumulazione di capitale umano rischierebbe di dare luogo a null’altro che a over-education.
Mercati di relazione, mercati scarsamente concorrenziali, mercati con imprese dove la distribuzione del potere favorisce in modo preponderante alcuni a danno di altri, mercati che rischiano di domandare sempre meno lavoro richiedono interventi molto più profondi (e complessi) della sola promozione dell’istruzione. Richiedono, quindi, di andare al cuore del “capitale nel XXI secolo” e del suo modo di funzionamento. Per fare questo occorre una dose non modica di saggio radicalismo e occorre anche liberarsi di una serie di pre-giudizi e di pre-interessi rispetto ad alcune forme di intervento. Se, partendo dal Capitale nel XXI secolo si arrivasse a questo, non potrebbero nutrirsi più dubbi sul fatto che Piketty è una superstar del XXI secolo.