1. Introduzione
Fabrizio Barca ha presentato nel 2013 una proposta di riforma dei partiti che ha discusso in 110 incontri in tutt’Italia con la partecipazione di 16 mila persone. Ha avviato poi undici progetti locali, tutt’ora in corso, per sperimentarla nel Partito Democratico, che coinvolgono attivamente un centinaio di volontari e hanno avuto l’appoggio di 583 finanziatori (ciascuno dei quali non poteva versare più di 500 euro). È il più meditato e avanzato tentativo da molti anni, e il confronto con il progetto politico e istituzionale di Adriano Olivetti può essere per questo proponibile, nonostante la grande distanza che li separa in molti sensi.
Entrambi partono dalla grave divergenza tra politica e società civile, che era al centro delle preoccupazioni di Olivetti negli anni quaranta del secolo scorso, e che Barca vede oggi ripresentarsi in modi non meno preoccupanti.
2. La critica ai partiti
Le loro critiche ai partiti italiani sono altrettanto forti a settant’anni di distanza. Adriano Olivetti attribuiva ai partiti dell’età liberale notevoli responsabilità per il sorgere del fascismo, e non credeva nei partiti di massa che stavano nascendo alla fine della guerra «all’apogeo della partitocrazia», come scriveva, perché non immuni, anzi, dai vizi del «potere burocratico, delle grandi promesse, dei grandi piani e delle modeste realizzazioni» (Olivetti [1949] 2013, p. 25). Non condivideva però del tutto la posizione di Simone Weil ([1943], 1950), a cui pure si ispirava, secondo la quale per quanto sia difficile trovare il modo di far partecipare i cittadini alla cosa pubblica, prima di tutto occorre abolire i partiti, e poi si vedrà. Olivetti riteneva che l’eliminazione dei partiti dovesse essere contestuale alla loro sostituzione. La quale non poteva essere data però da altri gruppi e formazioni sociali come nelle proposte corporative, ovvero organiciste, o dalla tecnocrazia. Egli proponeva di sostituire i partiti con una complessa architettura istituzionale che doveva avere alla base le “Comunità concrete” dialoganti con gli “Ordini Politici”, «integrati […] da un codice morale superiore» (Olivetti 1946, p. 163). Gli ordini politici, ad esplicita imitazione degli ordini religiosi, erano concepiti come organi di rappresentanza ma anche di integrazione tra il volere dei cittadini e il sapere degli addetti all’esercizio delle varie funzioni politiche, ed erano chiamati alla formazione del Senato federale.
Anche per Fabrizio Barca l’aprirsi di una drammatica divergenza tra società politica e società civile è legata alla degenerazione dei partiti che hanno privilegiato la logica del potere rispetto a quella della rappresentanza. Egli tuttavia, nonostante questo, conferma ai partiti la loro insostituibile funzione, e propone «un partito nuovo per un buon governo». D’altra parte, la sua proposta non è troppo distante da quella di Adriano Olivetti sul ruolo delle comunità concrete. E’ vero che mette in guardia circa i pericoli della segregazione comunitaria, ma valorizza l’autodeterminazione nei luoghi: «il partito non [deve essere] più il veicolo dei bisogni, della “domanda popolare”, di un gruppo di “simili”; è piuttosto il coagulo delle soluzioni immaginate o praticate nei territori per soddisfare i bisogni di un gruppo di “diversi”» (Barca 2013, p. 40). Si potrebbe quindi dire che la sua maggiore distanza da Olivetti, oltre che sul futuro dei partiti, non è sul ruolo delle comunità, ma su un altro piano, ed è precisamente sull’idea che esista un sapere in grado di rispondere ai problemi e istanze emergenti.
3. La questione del sapere
Per Adriano Olivetti l’architettura istituzionale non può reggere senza personale politico altamente competente. E per sostenere e garantire le competenze dei politici proponeva lo “Istituto Politico Fondamentale”, una scuola di alto livello con natura di organo semi-costituzionale, obbligatoriamente frequentata da chi si candidasse ad assumere ruoli politici e di governo. Per Fabrizio Barca invece: «Con un’incertezza elevata e pervasiva, una tecnologia rapidamente mutevole, preferenze assai idiosincratiche ai contesti, le soluzioni di ieri rappresentano una guida limitata per risolvere i problemi di oggi e nessuno possiede la conoscenza adeguata per anticipare i problemi e per disegnare soluzioni» (Ivi, p. 24, corsivo aggiunto). Per Adriano Olivetti questo sapere esisteva, anche se non le prefabbricate soluzioni, le quali dovevano venire ad opera delle funzioni politiche: non «mero insieme di tecniche e di poteri […ma] continua elaborazione culturale» (Ristuccia 2009, p. 116). Si potrebbe quindi dire che la differenza tra Barca e Olivetti non sta certo nel maggiore o minore riconoscimento di centralità all’innovazione, quanto piuttosto nella natura dell’incertezza in cui si svolge l’attività politica doverosamente innovativa. Per Adriano Olivetti si potrebbe dire trattarsi di “incertezza epistemica”, per Fabrizio Barca di “incertezza ontologica”, usando la distinzione pertinente lo statuto dello “sperimentalismo democratico”. Fabrizio Barca assume in effetti la prospettiva dello sperimentalismo democratico, inserito nel movimento che sostiene la necessaria svolta dalla “auto legislazione” alla “auto determinazione”, come indicato da James Bohman (2013). Egli cita in proposito un saggio di Charles Sabel (2012) sul filosofo americano John Dewey (1859-1952). Secondo il paradigma dello sperimentalismo, l’attività di policy seguirà questa caratterizzante e nuova sequenza: «agli attori […] che agiscono con le loro unità locali […], è attribuita autonomia di decisione per contribuire agli scopi generali a loro modo, ma a condizione che elaborino […], con altri, misure standard riferite agli obiettivi e sistemi di rilevazione in grado di documentare i progressi compiuti verso il loro raggiungimento. L’esperienza diffusa viene quindi periodicamente valutata sulla base di tali standard, e questo esame […] detta le esigenze di cambiamento [delle attività] […], ovvero la revisione degli standard e dei sistemi di rilevazione, o il cambiamento delle regole, o qualche combinazione di tutto questo» (Sabel 2012, pp. 44-45). Non può rispondere a questa finalità un disegno, per quanto sofisticato, di architettura istituzionale composta da diversi organismi ciascuno con il suo chiaro ruolo, nel presupposto che ciascuno conosca ex ante che cosa fare. Se questa conoscenza non c’è o è molto parziale, allora si richiede invece un’organizzazione che promuova le esperienze e ne elabori i risultati. É il partito, ma come “partito palestra”: «È un partito palestra che offre lo spazio per la mobilitazione cognitiva, per confrontare molteplici e limitate conoscenze, imparare ognuno qualcosa, confrontare errori, cambiare posizione, costruire assieme soluzioni innovative per stare meglio e gli strumenti e le idee per farle vincere; e permettere così anche che dal confronto collettivo si profili e vada emergendo un avvenire più bello […] con tratti che oggi non possiamo anticipare» (Barca 2013, p. 2). Ciò non significa, tuttavia, che nello sperimentalismo democratico le competenze dei politici possano essere trascurate. Come sottolineano esperienze e letteratura ormai consistenti, essi, come agenti dello sperimentalismo, hanno bisogno di specifica preparazione: studi approfonditi e lunghe pratiche guidate.
Eppure le competenze non bastano, né per Adriano Olivetti, né per Fabrizio Barca.
4. La questione morale in Adriano Olivetti: presentazione
Nell’architettura istituzionale di Adriano Olivetti è essenziale l’innervatura del «codice morale superiore». Ed è chiarissimo nei sui scritti che questa non è un’aggiunta che si possa trascurare. Egli ritiene al contrario che sia un elemento essenziale senza il quale il suo “sistema” non regge. Vi sono quindi, a spiegare quali siano i fondamenti di questo codice, i riferimenti ripetuti e insistiti al Vangelo; e non sparsi, ma proprio nelle due opere più pertinenti l’argomento della politica: nelle prime come nelle ultime pagine de “L’ordine politico delle comunità” e in “Democrazia senza partiti”. Sono i temi meno frequentati nella letteratura secondaria Olivettiana. Il che si può interpretare come un benevolo silenzio davanti a questi sconfinamenti in un campo che lo stesso Olivetti non considera di sua competenza, o anche con la storica reticenza della nostra accademia a occuparsi di faccende ritenute di competenza ecclesiastica. In questo modo però si manca di dare il peso che Adriano Olivetti attribuiva a una leva cruciale, che chiude il cerchio della sua costruzione politica – istituzionale, il richiamo alla moralità che è rivolto ai politici, ai credenti ma anche ai non credenti.
Consideriamo, in primo luogo, i limiti di competenza che Olivetti si autoimpose. Infatti è proprio un’eccezione a questi limiti che forse permette di intendere il significato dei richiami al Vangelo in un’opera che tratta di politica e istituzioni. I limiti sono spiegati in una sua lettera del 1955 al padre Agostino Gemelli, che gli aveva chiesto di pubblicare un libro di storia della teologia contemporanea, non sufficientemente ortodosso per la sua editrice “Vita e Pensiero”, ma comunque degno di attenzione. Olivetti declina l’invito perché «affrontare […] come fa il libro dell’Aubert, questioni di teologia, non rientra nei compiti della nostra casa editrice, rispettosa dei suoi limiti e delle sue funzioni cui modestamente cerca di adempiere». In effetti, se si scorrono i titoli pubblicati da Comunità sotto la guida di Olivetti, la sua affermazione è pienamente confermata: Berdiaev, Claudel, Soloviev, Bergson, Kierkegaard, Mounier, Maritain, Santayana, Weil, Miegge scrivono di religione, ma non sono propriamente dei teologi, certamente non dei teologi con imprimatur cattolico.
Vi è una sola eccezione, una sola forzatura dei limiti autoimposti. Si tratta dell’unica pubblicazione dell’anno 1946 (se non si considera l’edizione rilegata de “L’Ordine Politico delle Comunità”), un libretto con due scritti pubblicati nel 1933 da Erik Peterson, prima amico intimo e poi avversario di Carl Schmitt. Questo fatto merita attenzione. Che nel 1946 Olivetti decida di inaugurare le pubblicazioni dell’editrice Comunità con i due scritti di Peterson (“Il mistero degli Ebrei e dei Gentili nella Chiesa” e “La chiesa dei Giudei e dei Gentili”) ha certamente un significato. Il genere letterario è esegetico-teologico, con citazioni in lingua originale di testi patristici greci e latini a commento di tre capitoli della lettera di S. Paolo ai Romani. Il tema è quello della salvezza finale degli Ebrei, ma non mancano riferimenti all’attualità del popolo ebraico: «Persino l’Ebreo che non crede è sempre un uomo zelante. Ai nostri tempi sarà socialista per zelo della giustizia, o pacifista per zelo di una pace che non è divina ma umana. […]. Il Gentile che perde la fede è zero assoluto. […]. Le parole di San Paolo trovano una tremenda conferma nel tempo presente. I popoli cristiani che perdono la fede decadono, in verità, a un grado di barbarie e di annientamento dove i giudei non possono discendere» (Peterson [1933] 2013, p. 43, 60). Olivetti pubblica l’opera di Peterson che contiene questo passaggio nel 1946, e ormai tutti sanno che i suoi terribili presagi si sono avverati al di là di ogni immaginazione. Ma, oltre questo, Olivetti traeva da Peterson (1937, 1955) conforto a favore della democrazia, per quanto non priva di contraddizioni, da cui la sua posizione secondo la quale la democrazia non garantisce verità e giustizia, ma evita la barbarie se sono rispettate certe condizioni.
E forse su questo sfondo possono essere meglio intesi i continui richiami al Vangelo, al cristianesimo e alla Chiesa negli scritti politici di Olivetti. Si può sostenere che per Adriano Olivetti la democrazia poteva effettivamente preservare dalla barbarie nella misura in cui la politica fosse realmente cosciente di non poter garantire verità pur obbligandosi a cercarla.
Questo articolo presenta in sintesi e in parte un lavoro che si inserisce nell’ambito delle iniziative di ricerca dell’Associazione “Etica e Economia”. Esso è stato illustrato al “Focus Adriano Olivetti 2014”, Bari – Aula Magna del Politecnico – 30/31 Ottobre 2014.