Nel dibattito che ha accompagnato la presentazione del Jobs Act ricorrono spesso affermazioni sulle caratteristiche del nostro mercato del lavoro che sono imprecise o parziali. In queste note mi soffermerò su alcune di essi, anche perché una conoscenza più corretta di quelle caratteristiche può avere importanti implicazioni per l’individuazione delle politiche più appropriate da adottare.
Se si considera il tasso di disoccupazione, non pochi paesi europei negli anni della crisi risultano in condizioni peggiori dell’Italia e anche di molto. Ma ciò non deve essere motivo di consolazione. Infatti, il tasso di disoccupazione, come è stimato dalle convenzioni statistiche europee, è un indicatore molto imperfetto dello stato di salute di mercati del lavoro che operano in contesti normativi molto differenti e perciò fin dal 2000 le politiche del lavoro europee, ora cadute nell’oblio, lo avevano sostituito con il tasso di occupazione come misura degli obiettivi da raggiungere. Il confronto tra Italia e Spagna chiarisce bene la questione.
Attualmente il tasso di disoccupazione della Spagna è il doppio di quello dell’Italia (24% contro 12%), ma la percentuale di occupati sulla popolazione in età da lavoro è uguale (intorno al 56% contro una media europea che sfiora il 65%). Questo paradosso si spiega con il fatto che la “fascia grigia” delle persone che vorrebbero avere un lavoro, ma non lo cercano attivamente in Italia ha una consistenza eguale a quella dei disoccupati, mentre in Spagna, come negli altri paesi europei, raggiunge soltanto un terzo. L’enorme volume degli italiani che vorrebbero avere un lavoro senza cercarlo viene comunemente attribuito a un effetto di scoraggiamento: poiché cercare lavoro è un’attività costosa, se non altro dal punto di vista psicologico, chi ritiene impossibile trovarlo si scoraggia e vi rinuncia. Tuttavia, il caso della Spagna, ove trovare lavoro è altrettanto difficile che in Italia, per lo meno ridimensiona questa spiegazione. Vi sono, invece, due importanti differenze normative che possono spiegare questo paradosso. In Spagna la platea dei senza lavoro che possono fruire di un’indennità di disoccupazione è due volte quella dell’Italia; inoltre le indennità non sono distribuite ai disoccupati da un ente pensionistico con cui non hanno alcun rapporto, come in Italia, bensì dai centri per l’impiego, nei quali i senza lavoro devono recarsi ogni mese per confermare di essere in cerca di lavoro e quindi essere classificati come disoccupati nelle indagini sulle forze di lavoro. Si può perciò arguire che qualora anche in Italia la platea degli aventi diritto alle indennità fosse ampliata e le indennità venissero distribuite da un’Agenzia nazionale del lavoro, come prevede il Jobs Act e avviene in quasi tutti i paesi europei, si avrebbe un significativo incremento del tasso ufficiale di disoccupazione.
Il tasso di occupazione ci racconta una storia molto più drammatica per l’Italia, poiché anche prima della crisi era il più basso di tutti i paesi europei, tranne Grecia e Croazia. Il forte carico fiscale sui singoli lavoratori si deve anche al loro ridotto volume. D’altro canto, anche alla redistribuzione delle scarse occasioni di lavoro tra le famiglie (l’Italia è il paese delle famiglie monoreddito, quello del capofamiglia maschio) si deve la relativa tenuta degli equilibri sociali, almeno finora, perché la percentuale di famiglie in cui non entra nessun reddito o pensione da lavoro è andata crescendo, fino a superare il 17% nel Mezzogiorno e il 5% al Nord.
Se poi guardiamo a quali occupazioni mancano in Italia per raggiungere il livello di occupazione dei paesi con cui siamo soliti confrontarci, abbiamo una sorpresa e una conferma. La sorpresa riguarda i settori. Rispetto alla popolazione il deficit di occupati riguarda il commercio, i trasporti, l’informazione e il credito, ma soprattutto la pubblica amministrazione, l’istruzione e in particolare la sanità, cioè i servizi che in tutti i paesi europei sono per lo più sostenuti dalla spesa pubblica. Nel 2013 la percentuale di popolazione occupata nella pubblica amministrazione è inferiore di 1,4 punti percentuali alla media europea, quella occupata nell’istruzione di 1,3 punti percentuali e quella nella sanità di 3,4 punti percentuali. Per contro, l’Italia si segnala per un’alta percentuale di lavoratori domestici sulla popolazione (quasi un punto più della media europea). Oltre a chiedersi come la popolazione italiana, tra le più vecchie in Europa, possa godere di un alto livello di salute con così pochi medici e soprattutto infermieri, si smentisce il luogo comune di un eccesso di dipendenti pubblici. Semmai si deve parlare di un deficit di produttività nei settori privati e di un eccesso di evasione fiscale che non consentono di sostenere un maggiore finanziamento dell’occupazione nei servizi (per lo più pubblici) destinati alla riproduzione sociale, biologica e culturale, servizi che a loro volta hanno sul lungo periodo un importante impatto sulla produttività complessiva di un paese. Si pensi, in particolare, all’istruzione, ricordando che l’Italia è quasi l’unico paese europeo che ha ridotto l’occupazione in questo settore durante la crisi, nonostante la recente indagine Ocse sulle competenze degli adulti la classifichi all’ultimo posto.
Poiché pubblica amministrazione, istruzione e sanità, ma anche informazione e credito sono settori ad alta presenza di professioni intellettuali qualificate e poiché negli altri settori prevalgono largamente imprese di piccole dimensioni a bassa presenza di tali professioni, si comprende come in Italia le occasioni di lavoro con un elevato livello di professionalità siano particolarmente scarse. Questa è una conferma di un fenomeno più noto, ma è impressionante rilevare che 8 dei 10 punti percentuali di differenza tra il tasso di occupazione dell’Italia e quello medio europeo si devono alle gravi carenze di professioni dirigenziali, intellettuali e tecniche. Con la scarsa domanda di lavoro molto qualificato e non con l’eccesso di istruzione si spiegano le maggiori difficoltà che i giovani italiani più istruiti incontrano quando entrano nel mercato del lavoro, anche se comunque riescono a trovare un’occupazione meno lentamente dei loro coetanei con un minore livello di istruzione. D’altro canto, la forte domanda di lavoro poco qualificato spiega perché l’immigrazione abbia rallentato, ma non si sia interrotta durante la crisi.
In tutti i paesi europei tra i giovani che riescono a trovare un lavoro sono sempre più quelli che svolgono un’attività per cui sarebbe sufficiente un livello di istruzione inferiore a quello che hanno conseguito, anche se occorre chiedersi se il fenomeno della over-education non sia un po’ sovrastimato, poiché cresce l’importanza delle soft-skills (capacità di lavorare in gruppo, di affrontare situazioni di crisi improvvise, ecc.) che richiedono competenze più complesse di quelle tecnico-specifiche comunemente fornite dall’istruzione medio-superiore. In Italia, comunque, la crescente sovra-istruzione dei giovani 25-39enni è frutto di uno squilibrio “a basso livello” tra una percentuale di laureati inferiore di quasi 15 punti percentuali alla media europea e una percentuale di occupati in professioni intellettuali e tecniche inferiore di quasi 10 punti percentuali alla media europea. Una combinazione che relega l’Italia agli ultimi posti in Europa, con qualche paese dell’Est.
Inoltre, contrariamente a quanto accaduto in quasi tutti gli altri paesi europei, la domanda di lavoro in l’Italia ha reagito all’attuale crisi riducendo le occupazioni più qualificate e aumentando quelle meno qualificate. Secondo un recentissimo studio Isfol-Istat, tra il 2008 e il 2012 le sole occupazioni che sono cresciute sono quelle impegnate in attività elementari (tra cui primeggia il lavoro domestico e di cura presso le famiglie), gli addetti alle attività commerciali o di servizio alla persona e gli impiegati esecutivi, mentre sono si sono ridotte le professioni tecniche e soprattutto quelle imprenditoriali e dirigenziali e le occupazioni operaie specializzate e semi-qualificate. La forte riduzione del lavoro operaio specializzato e qualificato è il risultato di una netta accelerazione del processo di de-industrializazione, cui però non ha fatto seguito un adeguato sviluppo di attività innovative ad alto contenuto tecnico e professionale.
In tale contesto che delinea l’ineluttabile rischio di “una via bassa alla decrescita”, si innesta un processo di precarizzazione dell’occupazione volto, da un lato, a ridurre il costo del lavoro in assenza di ogni crescita della produttività per i mancati investimenti in innovazione e sviluppo e, dall’altro, a fronteggiare la crescente incertezza di mercati dei prodotti e dei servizi che imprese poco innovative sono costrette a subire. Nelle statistiche europee l’Italia non figura tra i paesi in cui maggiore è la diffusione dei lavori instabili perché si considerano solo i rapporti di lavoro dipendente a tempo determinato, ma se si aggiungono le collaborazioni e il lavoro a progetto (rapporti quasi sconosciuti nella maggior parte degli altri paesi europei) la percentuale di rapporti a scadenza prima della crisi superava la media europea e sfiorava il livello di uno dei paesi più flessibili, l’Olanda. E non bisogna dimenticare che la frequente nati-mortalità delle moltissime piccole imprese ha sempre reso di fatto poco stabili gran parte dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, il 30-40% dei quali si conclude nell’arco di un anno.
Con la crisi la percentuale di posti di lavoro instabili non è aumentata, anche se è aumentata quella delle assunzioni con rapporti instabili. L’apparente contraddizione si spiega con la riduzione delle trasformazioni da rapporti instabili a stabili. Così è andata crescendo la giostra di coloro che entrano ed escono più volte dalle posizioni di lavoro instabili, alternando brevi periodi di lavoro a spesso lunghi periodi di disoccupazione. E l’area dei giovani precari si è ulteriormente ampliata, rendendo sempre più difficile una transizione dalla scuola al lavoro in Italia già molto più critica che in altri paesi europei a causa della combinazione tra un sistema formativo largamente auto-referenziale e un sistema produttivo a bassa intensità di lavoro qualificato. La speranza di guadagnare in produttività sfruttando la grande flessibilità della forza lavoro giovanile si rivela quindi vana a fronte dello scarso investimento in apprendimento sul lavoro, da parte sia dei lavoratori sia delle imprese. Alla trappola della precarietà si accompagna, quindi, quella della bassa produttività del lavoro dovuta allo scarso commitment.