L’attenzione del paese è tutta concentrata sui poco confortanti dati della sua situazione socio-economica e sulla necessità di far ripartire il PIL, apparentemente, trascurando il fatto che una bella fetta di PIL fa direttamente capo alla pubblica amministrazione e che il settore privato dell’economia sostiene per finanziarla costi molto elevati. Nel dibattito su conti pubblici e crescita è difficile rintracciare una seria preoccupazione per l’efficienza, efficacia e trasparenza della PA, eppure sarebbe forse opportuno, senza distogliere l’attenzione dalla performance del settore privato, occuparsi anche della performance relativa a quella parte di PIL che fa capo alla PA; se resa più efficiente e più utile alla collettività, quest’ultima potrebbe contribuire non poche risorse alle finanze pubbliche e alla crescita. Purtroppo, lo squilibrio dei conti pubblici, causato principalmente da una clamorosa evasione fiscale, viene affrontato trattando la PA come una mera riserva di fondi. Ma i tagli alle sue dotazioni finanziarie, pur alleviando temporaneamente il deficit, non incidono sulle cause dello squilibrio, piuttosto lo aggravano.
Sarebbe invece possibile intervenire, oltre che con fondamentali misure per il recupero dell’evasione fiscale, con un programma per il recupero di efficienza e di efficacia dell’amministrazione, indirizzando risorse al miglioramento della qualità dei servizi, al recupero di importanti margini di equità, senza per questo compromettere il perimetro dello stato e anzi contribuendo al risanamento delle finanze pubbliche e alla crescita economica.
Per far ciò occorrerebbe che l’amministrazione fosse dotata di quegli strumenti gestionali in grado di consentire adeguati interventi di miglioramento dei processi di servizio. Purtroppo, malgrado contribuisca in misura rilevante alla formazione del PIL – nel periodo 2000-2013 le entrate ne hanno costituito, in media, il 45,8 % e le spese il 49,1 % – la PA non viene valutata in base a parametri uguali – eventualmente con i necessari aggiustamenti – a quelli che si applicano al PIL che si produce nel settore di mercato. Di questo settore conosciamo praticamente tutto, pur nella diversità dei modelli di riferimento: i processi produttivi, i beni e servizi prodotti, il loro costo di produzione e il valore e i correlati redditi, la produttività, i rendimenti, l’occupazione, i consumi, etc.; conosciamo anche il “sommerso” e, , con i nuovi criteri metodologici (Sec 2010), anche il valore delle attività criminali. Invece, l’esatta “morfologia” di quella grande fetta di PIL che fa riferimento alla PA rimane sostanzialmente inesplorata. Sappiamo delle entrate totali e della spesa, magari descritta per missioni e programmi (bilancio dello stato), il numero dei dipendenti, una serie di parametri riferibili alle le sue caratteristiche giuridico-amministrative, i suoi organi, poteri, attribuzioni e competenze, ma continuiamo a chiederci della sua effettiva utilità (efficacia), produttività (efficienza) e, più in generale, del suo effettivo contributo alla performance e qualità complessive dell’intero corpo sociale sul quale indubbiamente essa incide in modo rilevante. Rimangono infatti del tutto sconosciuti i processi di produzione delle amministrazioni (non economicamente rilevati e rendicontati), l’impiego dei fattori, i costi di produzione, la produttività, etc. e, dunque, il suo grado di utilità per la collettività: palla al piede o fattore di sviluppo?
Fin dal 1948, nella nostra Costituzione, sono stati chiariti i fondamentali princìpi a cui l’amministrazione avrebbe dovuto attenersi: oltre alla legalità, il buon andamento e l’imparzialità (art. 97). Alla loro enunciazione non è però seguita alcuna definizione di strumenti e modalità economico-gestionali attraverso cui effettivamente vincolare, su di un piano più operativo, l’azione amministrativa al loro rispetto.
Nel 1990 il Parlamento, con la legge n. 241, ho chiarito quali dovessero essere gli specifici requisiti dei processi del sistema amministrativo pubblico: oltre alla legalità, l’efficienza (economicità), l’efficacia (utilità), l’imparzialità, la pubblicità e la trasparenza. Anche stavolta questi attributi sono rimasti circoscritti a fattispecie di natura giuridica (come ad esempio, l’invalidità-illegittimità, l’eccesso o la carenza di potere, etc. o, ampliando i riferimenti ad un diverso Codice, la corruzione, la concussione, il peculato, etc..) senza che venissero precisati sotto il profilo economico-gestionale, con la conseguenza di renderli del tutto inefficaci all’interno della dimensione operativa dell’amministrazione.
Nel corso degli anni novanta il Parlamento ha avviato un più ambizioso processo di riforma della PA con l’intento di assicurarne una gestione operativa effettivamente allineata al rispetto di quei princìpi. Veniva così prevista la “rilevazione e controllo dei costi” attraverso l’impiego di “procedure interne e tecniche di rilevazione” degli stessi (d. l.vo 29/93), un sistema di “controllo interno di gestione” alimentato da “rilevazioni periodiche … dei costi, delle attività e dei prodotti….”, nonché specifici “indicatori di efficacia, efficienza ed economicità…”, al fine di una ”..valutazione comparativa dei costi, rendimenti e risultati…” (l. 59/97) e si stabiliva che le amministrazioni avrebbero dovuto “…verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati ..” (d. l.vo 286/99). Il legislatore interveniva di nuovo, nel 2009, stabilendo che “..Ogni amministrazione pubblica è tenuta a misurare ed a valutare la performance..” adottando “…metodi e strumenti idonei a misurare, valutare e premiare la performance…”, stabilendo, inoltre, che gli organi di indirizzo politico amministrativo “verificano l’andamento della performance..” (d. l.vo n.150).
Tuttavia, malgrado il precetto costituzionale e un significativo corpo di interventi legislativi, non risultano oggi disponibili né strumenti, né prassi gestionali che possano assicurare un impiego ottimale delle cospicue risorse a disposizione della PA (oltre 751 mld di euro di entrate nel 2013), o una effettiva utilità dell’azione pubblica (efficacia) e, dunque, la misurazione del suo effettivo contributo alla collettività. Anzi, il valore abnorme del debito pubblico, o la dimensione del “sommerso”, sono eloquenti indicatori del sostanziale mancato rispetto dei princìpi costituzionali e della inadeguatezza dei controlli amministrativi.
La concreta verifica del rispetto di quei princìpi è stata infatti “trattenuta” all’interno della sola dimensione giuridica dell’amministrazione, attraverso il ricorso a fattispecie giuridico-amministrative, senza che ciò si sia tradotto in interventi di natura gestionale o organizzativa per circoscrivere e rimuovere quella molteplicità di comportamenti e fenomeni che pur senza ricadere, ad esempio, in alcuna delle previste fattispecie penali, comunque contribuiscono al saccheggio di risorse pubbliche [1. Vedi, Morciano M., Controlli interni e performance tra indeterminatezza e misurazione, Astrid Rassegna, n. 181, 2013]. La responsabilità di perseguire il buon andamento, l’efficienza, o l’efficacia dell’amministrazione sembra essere stata di fatto devoluta alla sola magistratura, attraverso interventi sanzionatori di attività illegali, assolvendo da questi compiti la dirigenza pubblica (e la politica) che è chiamata a rispondere di comportamenti penalmente rilevanti, non anche del quotidiano sperpero di risorse pubbliche derivante dalla loro allocazione sub-ottimale, da processi ridondanti, strutture inutili, investimenti fallimentari, etc., che possono essere propriamente valutate solo sotto un profilo economico-gestionale.
Lo stesso processo della spending review opera solo su dati di natura finanziaria e dunque senza alcuna possibilità di incidere sulle inadeguatezze del sistema (salvo che per caso), riducendosi così ad un mero esercizio di “tappabuchismo”.
Il buon andamento (o la performance) della PA, nonché il grado di osservanza di quei princìpi che fondamentalmente qualificano l’amministrazione pubblica – efficacia, efficienza, imparzialitá, trasparenza – possono invece essere misurati quantitativamente e valutati, semplicemente attuando quelle riforme amministrative che finora sono tutte abortite subito dopo la loro formale introduzione; si tratta, cioè, di completare sotto il profilo economico-gestionale la dotazione di strumenti operativi dell’amministrazione, con l’adozione di criteri di contabilità economica, la mappatura dei processi di produzione, la rilevazione dei costi di produzione e dei risultati conseguiti nella società, etc.. [2. Vedi, Morciano M., Valutazione della performance e ciclo del miglioramento continuo nella PA, Astrid Rassegna, n. 168, 2012]. Solo in tal modo possono essere valutati e corretti anche quei comportamenti e fenomeni che pur non costituendo un illecito penale o amministrativo contribuiscono pesantemente all’inefficienza e alla scarsa efficacia e trasparenza del sistema pubblico.
La corretta gestione di questi strumenti e l’avvio di effettivi processi di innovazione in linea con i principi democratici richiede peraltro una classe di funzionari e dirigenti dotati di adeguate competenze e responsabilità ed effettivamente e consapevolmente coinvolti nei processi di miglioramento.
Più che rincorrere nuove riforme c’è dunque bisogno di attuare quelle già varate. Il quadro normativo esiste da tempo e anche a livello regolamentativo, pur con le molte lacune e ambiguità che hanno consentito di degradare quelle riforme ad una mera tematica convegnistica, i riferimenti generali sono sufficienti per avviare specifici progetti di attuazione. Occorre però l’impegno determinato non solo dell’amministrazione, ma anche e soprattutto della politica. In particolare, il dipartimento della Funzione pubblica non può non assumersi la responsabilità di avviare e governare i processi attuativi per far uscire l’amministrazione da una situazione che ne condiziona pesantemente la credibilità e legittimità.
Non c’è bisogno di sottolineare che, avendo praticamente “bruciato” tutti i possibili strumenti tradizionali di intervento a disposizione del policy maker (la oramai famosa mancanza di “flessibilità”, ma letta per il suo giusto verso), il recupero di legalità, efficacia, efficienza e trasparenza di una buona metà del PIL rappresenta un passo fondamentale per il recupero di decenti livelli di crescita e per la realizzazione della giustizia sociale.