E’ buona norma non lanciarsi in commenti saccenti su vicende politiche ed istituzionali che riguardano altri Paesi perché, al di là di quelli formulati dai pochi esperti di politica estera, i giudizi rischiano spesso di fondarsi su analisi parziali e poco informate. Ma da quando i processi di integrazione europea hanno così profondamente intrecciato i nostri destini, molte cose che un tempo avremmo relegato a questione meramente locale assumono, viceversa, un importante peso nei processi politici ed istituzionali comuni agli Stati ed ai popoli europei.
Accade così per le elezioni politiche greche della scorsa domenica, per il sorprendente – per quanto annunciato – risultato che ha portato alla vittoria di Alexis Tsipras, per via di un consenso costruito intorno ad un programma politico che prende di petto le più recenti politiche finanziarie dell’area Euro.
Già le ultime elezioni europee erano state caratterizzate, in pressoché tutti gli Stati europei, da una forte ondata di euroscetticismo e di populismo, alimentati dalla profonda crisi della rappresentanza politica e degli stessi Parlamenti, e dagli effetti della crisi economica sulle vite di moltissimi cittadini comuni. Ora questi risultati in Grecia. Una vittoria del populismo? dell’euroscetticismo? O potrebbe davvero comporsi una versione praticabile del fronte anti-austerity?
Per quanto attiene al caso greco possiamo sgombrare subito il campo dal c.d. euroscetticismo. Tsipras non sembra contestare l’integrazione europea, né la moneta unica. La sua visione, piuttosto, contrasta con veemenza le politiche di austerity come antidoto alla crisi finanziaria, e da qui ripartiremo nella nostra breve riflessione.
Prima di questo farei soltanto un paio di considerazioni sull’approccio populista alla politica, perché credo sia utile sgombrare il terreno da proposte che vengono spesso spacciate per somiglianti, ma che a ben vedere non sono affatto assimilabili alla esperienza greca. Il populismo non offre ricette, ma denuncia con slogan i mali del mondo come ad esorcizzarne gli effetti. Basta alluvioni! basta terremoti! basta tasse! basta immigrati! basta omosessuali! basta crisi, basta debito! ecc. Ma, di solito, questa corrente di pensiero propugna ricette e promette cose che in realtà non si possono fare. La banalizzazione dei problemi e la semplificazione delle soluzioni, infatti, servono soltanto come strumento di propaganda elettorale, a volte permanente, per cui capita sovente che un leader populista appena eletto in una sede istituzionale, non si metta a lavorare per il bene comune, ma continui banalmente con la sua propaganda. Predicatori disinformati e disinformanti, personaggini da talk show, ma privi di reale coscienza critica e di adeguate competenze, preferiscono sfuggire le sedi istituzionali, le loro responsabilità ed i loro compiti alla permanente ricerca di una telecamera. Il populismo fa questo: trascina emotivamente i cittadini nel buco nero delle incompetenze dei governi. Quand’anche ottenesse di assumere funzioni di governo, la propaganda permanente e non l’interesse comune sarebbe il suo principale obiettivo.
Ma per affrontare le complesse questioni che hanno concorso a generare l’attuale crisi economica, istituzionale e politica europea non bastano assemblee di piazza e talk show. E’ necessario elaborare analisi e ricette estremamente più sofisticate e difficili da gestire.
Torniamo a Tsipras. L’elemento dominante del suo discorso pubblico si fonda sulla denuncia del fallimento delle politiche di austerity. Come è noto, a fronte della crisi dei debiti sovrani si confrontano da tempo diverse dottrine. E’ ovvio che un’eccessiva esposizione debitoria mandi a rischio la stabilità finanziaria degli Stati, ma è altrettanto ovvio che alcune spese – quelle per investimento, ad esempio – sono funzionali a far crescere la produzione, quindi il PIL complessivo su cui è parametrato lo stesso peso del debito. Per il momento possiamo soltanto limitarci a segnalare l’esistenza di opposte scuole di pensiero con riferimento agli esiti delle politiche di austerità. Per alcune esse sarebbero favorevoli alla crescita economica, tanto da qualificarle come expansionary contractions, contrazioni della spesa che generano espansione economica. Per altri, all’opposto, sono generatrici di gravi peggioramenti degli assetti di finanza pubblica. In questa prospettiva si parla, infatti, di self-defeating austerity, di un’austerità che si auto-vanifica. In base alle dottrine dei c.d. “moltiplicatori fiscali” si ritiene infatti che sarebbe possibile misurare gli effetti sulle variazioni del PIL delle diverse misure di aggiustamento fiscale. Di quanto è prevedibile possa aumentare, o all’opposto diminuire, il prodotto interno lordo – al netto di una serie di variabili rispetto alle quali il risultato andrebbe comunque depurato – per ogni euro di aumento o di taglio della spesa pubblica o di diminuzione della pressione fiscale, o viceversa? Naturalmente esistono molte differenti ipotesi circa la spendibilità della categoria dei moltiplicatori fiscali in un contesto macroeconomico dato. Non è di questo che vogliamo occuparci. Certo è che negli sviluppi delle politiche economico-finanziarie in ambito UE-Euro tutto sembrava comporsi intorno all’infallibilità delle dottrine di austerity. Alla certezza che il semplice taglio della spesa pubblica avrebbe prodotto senz’altro, nel medio periodo, una crescita del PIL, contribuendo alla soluzione di ogni conseguente problema di tenuta del debito e di ripresa economica.
Questa è l’ideologia professata dai trattai europei e dagli atti derivati, dal Fiscal compact e dal Patto di stabilità e crescita. Da qui i vincoli di bilancio, i parametri finanziari, la conseguente austerity, quindi i tagli indiscriminati e crescenti della spesa pubblica, in particolare della spesa sociale. Di qui i tagli a salute, trasporti, assistenza e le riforme pensionistiche. Ed ancora, nella ulteriore prospettiva di rafforzare produzione nazionale ed esportazioni, la riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori, con la conseguente flessibilizzazione del mercato del lavoro. E’ un tipo di approccio che, ammesso si fondi su ricette corrette, il che è spesso messo in discussione dalla stessa dottrina economica, dalla storia e dalla statistica, è comunque interessato in ipotesi soltanto ai dati aggregati, ai saldi quantitativi, alle somme. Prescinde dalla sorte delle persone. L’inesorabile economico si traduce in ideologia, poi in fede, e perde di vista il dato umano di cui il diritto, la democrazia, le Costituzioni non possono invece non occuparsi. Per questa dimensione parallela, infatti, conta anche la singola persona, il suo destino, i suoi diritti. Avere i conti in ordine e milioni di disoccupati, di senza tetto, di cittadini al di sotto della soglia di povertà, privi di assistenza sanitaria e di prospettive future non serve, non soddisfa, non è accettabile. Attenzione, non è accettabile neanche come fase transitoria, come dato provvisorio. E, comunque, gli indici di diseguaglianza, il diffuso tasso di povertà, il tipo di sviluppo economico reale sono di norma ben visibili proprio attraverso i dati aggregati.
La vittoria alle elezioni politiche greche di Tsipras ha questo di interessante, sul piano analitico. Testimonia l’irrompere della questione democratica come variabile a difesa dei diritti irrinunciabili delle persone sul proscenio dei processi di integrazione europea. Mette in crisi le certezze dogmatiche dell’economicismo, costringe le istituzioni politiche e finanziarie europee, i governi e tutti i cittadini d’Europa a farsi carico di una nuova visione, di nuove strategie, del nuovo rafforzato peso di vecchie questioni fino ad ora eccessivamente tacitate e neglette.
Ma, e qui viene il difficile, cosa dovrebbe accadere perché realmente cambi qualcosa? Quali passi ulteriori dovranno scaturire dalla vicenda elettorale greca perché il processo di integrazione europea cambi realmente direzione e prospettiva? La questione del debito incombe tuttora, grave e minacciosa. Del debito greco, ora, come in potenza nel prossimo futuro del debito italiano, francese o spagnolo. E debito sostenibile significa, cosa ben più preoccupante, accesso a nuovo credito, a nuove risorse finanziarie. Risorse senza le quali qualunque governo si troverebbe, dall’oggi al domani, a non poter più pagare stipendi pubblici – compresi quelli dei militari e delle forze di polizia – trasporti, ricoveri ospedalieri, scuole, ecc. Nessuno Stato può prescindere oggi da queste risorse, se vuole continuare a garantire ai propri cittadini, nel presente ed ancor più nel prossimo futuro, livelli essenziali di prestazioni nella garanzia dei diritti, prima ancora che di sviluppo economico, culturale e civile. La denuncia del debito pubblico, il rifiuto di pagarne una parte, il consolidamento forzoso o altra decisione unilaterale in ambito finanziario determinerebbe una chiusura degli indispensabili finanziamenti esteri od un incremento proibitivo dei costi dei titoli del debito pubblico. Per tornare alle grida populistiche ed all’analisi di apertura, soluzioni di questo genere rientrano tra le cose che, per quanto brandite nei talk show, in realtà non si possono fare. A meno di non voler far regredire il Paese di venti o trent’anni sacrificando un’intera generazione. Come le soluzioni economiciste, anche quelle di questo tipo avrebbero il difetto di guardare soltanto ai dati aggregati e non alle singole persone. Nessun governo, neanche il Governo Tsipras che ha appena giurato, può ignorare gli effetti finanziari delle proprie decisioni, se non propagandi un’irrealistica autarchia.
Qui sta la differenza tra i populismi e la democrazia. Nella responsabilità del governo delle sorti del proprio popolo. Nel prendere atto delle difficoltà, nel misurarsi con la complessità della vita reale. Le elezioni greche hanno avuto la grande forza di riportare sul tavolo delle istituzioni d’Europa la questione della democrazia. Si apre uno scenario insperato, che esorcizzando la paura dell’ignoto potrà costringere a prendere sul serio la questione dei diritti dei cittadini come elemento genetico della costruzione europea e chiave di volta dei futuri processi di integrazione. Le istituzioni finanziarie europee guardano con attenzione e timore al nuovo governo greco. Sperano nella ragionevolezza delle richieste del nuovo governo. Ma cosa hanno da offrire in cambio? Quale ragionevolezza dobbiamo invece aspettarci dalle istituzioni finanziarie e di governo europee? E dai governi degli altri Stati?
La vittoria di Tsipras alle elezioni greche da oggi all’Europa la chance di un ritorno della politica come strumento di governo dei processi di integrazione europea. Governo di questioni estremamente complesse. Attengono alla tenuta finanziaria dell’Europa, da un lato, e alla vita delle persone, dall’altra. Serviranno importanti riforme. A differenza di quanto professato dai dogmatici economicisti e dei populisti urlanti non ci sono però ricette semplici. Servono analisi, disponibilità al negoziato, processi di sintesi e reciproche concessioni. Una volta tanto dire che ce lo chiede l’Europa può avere un significato nobile, che affondi le proprie radici nella storia, nella cultura, nella civiltà del diritto e nella spinta umanistica del progresso tecnologico e scientifico. Ce lo chiedono i cittadini europei. I nostri concittadini greci, per il momento. Non sciupiamo questa occasione, non regaliamo un ennesimo fallimento ai populismi più beceri.