L’economia ed il modo di produrre hanno subito nel corso degli ultimi trent’anni cambiamenti epocali: la fine del fordismo, la globalizzazione, la smaterializzazione della produzione. Queste tre cifre del capitalismo contemporaneo, hanno un tratto comune di portata rivoluzionaria: il ruolo svolto dalla conoscenza nei processi di produzione.
Ai giorni d’oggi, tranne che per le attività labour intensive, il lavoro è divenuto totalmente lavoro cognitivo e l’esperienza del consumo attribuisce valore al significato o al servizio (immateriali) incorporati al bene materiale, piuttosto che al bene materiale di per sé. Ciò ha determinato un grande cambiamento nell’economia reale, con il passaggio ad una forma di capitalismo cognitivo, in cui la conoscenza come incipit alla discontinuità e all’innovazione è il vero motore della crescita economica.
La conoscenza possiede tre qualità fondamentali, che ne fanno una risorsa peculiare, non assimilabile ad altre: 1) si propaga facilmente, andando oltre il concetto di proprietà; 2) perde valore nel corso del tempo – l’intervallo di tempo con cui generalmente la conoscenza perde valore è molto breve -, specie a causa dei processi imitativi, e questo richiede un investimento consistente e costante per ricreare o rigenerare conoscenza; 3) ha un uso “non rivale” e quindi può essere condivisa (il fatto che stia usando della conoscenza non impedisce ad altri di farlo).
Ora, fino a che concepiamo lo sviluppo fatto di macchinari, capannoni o unità di lavoro create, stiamo pensando ad un concetto di “sviluppo estensivo” – cioè ad uno sviluppo guidato da processi di accumulazione del capitale e del lavoro, sostenibili fino al punto in cui la produzione è massima e la disponibilità di spazi consente ulteriore accumulazione – ma non possiamo immaginare che esso possa essere propagato, rigenerato, condiviso. La conoscenza come “fattore della produzione” è invece incorporata nelle macchine e nella professionalità degli uomini e si identifica con la componente invisibile del prodotto. In questo caso, pensiamo ad uno sviluppo “qualitativo” o “intensivo”, in cui ciò che conta non sono il numero degli occupati o di metri quadri assegnati alle attività produttive, ma il valore aggiunto addizionale a cui quell’occupato o metro quadro di superficie produttiva in più conducono.
La velocità con cui la conoscenza si propaga sta cambiando per effetto di due dei fenomeni soprarichiamati, la globalizzazione e la smaterializzazione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, soprattutto nel Mezzogiorno sono oggi presenti economie che puntano alla valorizzazione degli assets locali per lo sviluppo, creano reti relazionali e produttive locali, anche forti e solide, ma queste reti rimangono spesso circoscritte al luogo di partenza. L’economia della conoscenza sta invece diventando un’economia sempre più globale, cioè un’economia che si propaga e si moltiplica su reti lunghe o extra-locali. Al fine di poter sfruttare i benefici prodotti dall’economia della conoscenza, ma direi più correttamente, per non restare ai margini dei nuovi processi dello sviluppo economico, occorre necessariamente allargare le reti locali, proiettandole sui circuiti delle reti globali.
Con riferimento invece alla smaterializzazione della produzione, è accaduto oramai che nel processo produttivo il grosso del valore aggiunto si è trasferito dalla manifattura alle fasi della produzione immateriali (il design, la progettazione, la pubblicità, la moda, il servizio al cliente, la rete commerciale, etc.). In termini di utilità che l’utilizzatore percepisce ed è disposto a pagare, infatti, il valore del prodotto materiale che esce dallo stabilimento è ormai solo una frazione minore – e continuamente decrescente – del prezzo d’acquisto. Per esempio, se pensiamo alla moda, ciò che fa la differenza nella decisione d’acquisto, è soltanto in minima parte la manifattura (ad es. il confezionamento), mentre le componenti decisive sono la qualità dei materiali, il design, la campagna pubblicitaria; cioè tutte quelle componenti che richiedono un’attività collegata al lavoro dell’intelletto. Lo stesso vale per altri innumerevoli prodotti – in cui vi è una notevole parte di contenuto intellettuale – che inseriamo tutti i giorni nel nostro paniere dei consumi.
La propagazione della conoscenza per lo sviluppo richiede la formazione di comunità epistemiche – termine coniato dall’economista Rullani -: cioè comunità che condividono un medesimo sapere ed hanno in comune i linguaggi per accedere e poter utilizzare questo sapere.
Per sua natura, un territorio non è una comunità epistemica, tranne che per quei casi – riferibili ai distretti industriali della Terza Italia -, in cui conoscenze e – detto in termini becattiniani o alla Brusco – saperi diffusi si sono sedimentati e tramandati nel tempo, dando luogo a nucleoli che hanno condiviso conoscenze tacite ed un medesimo modello di organizzazione produttiva e di divisione del lavoro.
Oggi queste comunità epistemiche sono diventate molto complesse e grandi e non coincidono più con le comunità locali. In questa nuova organizzazione mondiale della produzione, un sistema locale ha grosse possibilità di sviluppo non se “contiene” al suo interno un grande patrimonio di conoscenze, ma se appartiene ai circuiti di molte comunità epistemiche. E’ semmai il patrimonio di conoscenze e le risorse distintive della comunità che apportano valore aggiunto alle comunità epistemiche di cui si fa parte, attribuendo maggiore forza competitiva alla singola comunità apportatrice all’interno dell’universo competitivo.
Ma prima ancora di questo occorre che gli attori territoriali (istituzioni, privati e società civile) abbiano una stessa visione delle priorità e del tipo di conoscenza su cui investire e da propagare (cioè se deve essere la conoscenza del turismo piuttosto che dell’industria, quella dell’impresa tessile piuttosto che quella agricola, quella della tecnologia, dell’ambiente, ecc.), al fine di decidere con quale identità, precisa e ben identificabile, la propria comunità intende uscire dal proprio guscio per giocare la partita dello sviluppo vero.
Ottimo articolo che ha delle implicazioni molto importanti ad esempio nei processi di riconversione della produzione e dei prodotti sul piano energetico e ambientale. La riconversione produttiva richiede un ruolo attivo del lavoro in quanto soggetto autonomo, proprio perché l’innovazione non passa solo attraverso gli investimenti delle aziende ma dipende anche dal coinvolgimento dei lavoratori che, attraverso la loro conoscenza ed esperienza, il loro impegno e il loro ingegno, possono dare una spinta determinante sia ai processi di innovazione della produzione e dei prodotti sia alle decisioni di investimento sia all’organizzazione della produzione. Queste considerazioni aprono un terreno di confronto negoziale rilevante tra gli stabilimenti produttivi, gli enti locali e le associazioni che operano nel territorio e spingono su un livello di qualità le ipotesi rivendicative della contrattazione aziendale e nazionale all’interno delle imprese in termini di diritti, di partecipazione e di formazione e aggiornamento professionale dei lavoratori.
E’ questo il tema di una collaborazione a cui sto partecipando con alcuni esponenti della FIOM – CGIL e di Greenpeace.
Mi sembra un contributo che, in termini sintetici, semplici ed efficaci presenta alcune tra le coordinate indispensabili per la comprensione delle trasformazioni in atto e di alcuni loro meccanismi. Ringrazio molto l’autore. Meno chiara, per me profano e chiederei maggiori delucidazioni, l’apparente neutralità dei processi descritti, il punto d’osservazione constatativo e oggettivante, come se fossero applicabili indifferentemente tanto a dispositivi di produzione delle conoscenze finalizzati al profitto (dunque competitivi,a prescindere dalle finalità specifiche, in una società di capitalismo avanzato che soddisfa esigenze immateriali) quanto a forme di costruzione condivisione e diffusione di democrazia delle conoscenze e dei saperi dal basso per finalità non coincidenti in modo diretto con quelle di mercato, seppure collegate a bisogni non solo materiali: parametri di qualità che sfuggono a valutazioni quantitative lineari e tradizionali (PIL ecc) pur avendo un forte impatto sulle condizioni di vita delle poleis e delle società. Meno convincente, ma è una sensazione in superficie, la nozione di comunità epistemiche allargate a rete, affascinante e con una oggettiva ragione d’essere ma che rischia di isolare i produttori di saperi dalla complessità sociale. Considerazione che vale in genere per le teorizzazioni comunitariste di oggi come per le elites culturali di ieri.
Certamente non si tratta di un dualismo rigido tra modelli di società’, come ricorda la puntualizzazione assai efficace di Stefano Sylos Labini che rappresenta bene l’interazione di soggetti diversi e le relative e necessarie mediazioni ai fini della riconversione ecologica: tema essenziale di incontro – scontro tra profitto e sostenibilità, peraltro, sul quale nel nostro Paese per il ‘blocco politico culturale’ in corso’dall’89 siamo fermi all’elaborazione della cultura ecologica della prima metà degli anni 80. Tuttavia alcuni processi (ad esempio il consumo veloce delle conoscenze e la loro perdita di valore o loro rapida sostituzione con altre, la necessità che permea l’intero articolo di costruire condizioni competitive, pena l’esclusione dal gioco) più che un meccanismo neutrale e oggettivo sembrano dotati di una loro direzione ideologica e di una loro ragione di essere non asettica di cui non è semplice definire vantaggi e svantaggi, opportunità e limiti. Esempio: che ruolo hanno le ‘conoscenze lente’ tradizionali, finora formative di culture, coscienze, identità duttili ma riconoscibili, l’elaborazione graduale del senso e del significato dei saperi, chi decide modi tempi e destinatari dei processi cognitivi, chi viene escluso e in che modo avviene, quale ruolo ha il conflitto tra poteri, intenzioni, finalità differenti? Conflitto é un termine che non compare in alcun modo, rafforzando la sensazione di un processo oggettivo, irreversibile e sistemico cui aderire, pena l’esclusione culturale e, per i suoi riflessi, anche quella sociale. Viceversa, velocità e competizione sembrano parametri non piu discutibili, secondo l’adagio che mi sembra ormai caratterizzare questi ultimi tempi: le cose sono così come sono e non possono essere diversamente. Punto. La selezione dei saperi che vivono e che muoiono a seconda delle finalita e dei rapporti di forza esistenti avviene secondo un pacifico scambio di idee in rete e un collegamento efficace tra comunità epistemiche sempre piu larghe e comunicanti, perchè la rete che non consente proprietà (sicuro, per quanto, e secondo quale concetto di proprietà?) è di per sé e oggettivamente democratica e annulla i rapporti di forza e i poteri – vecchie categorie ormai…; oppure lo scenario descritto nell’articolo, non è quello al cui interno si selezionano saperi e si incontrano/scontrano soggetti interessi e valori differenti ma è di per sé uno scenario di parte, per i modi, i tempi, le caratteteristiche peculiari e svolge un ruolo di parte, è parte del conflitto stesso?
Infine, qualora fosse possibile, mi piacerebbe capire quale può essere il ruolo dei saperi umanistici tradizionali, che hanno una strutturale lentezza ad adeguarsi alla velocità delle trasformazioni, all’interno di processi del genere: i saperi letterari, storici, filosofici, artistici in senso lato sono inutili, scompaiono, si adattano e si traducono in base a queste coordinate in che modo? Sono un ‘passatempo’ dei momenti lenti, quelli della distrazione dai processi produttivi egemoni, sono utili solo alla costruzione di beni immateriali collegabili col mercato (pubblicità, brand, eccetera) o s’inseriscono nella costruzione di saperi utili alla qualità della vita, secondo queste stesse coordinate?
Come si vede, riflessioni di reazione al bell’articolo, di onesta ‘resistenza’, la consapevolezza di categorie ormai logore (oggettivamente) e una richiesta di aiuto alla comprensione. Davvero un ringraziamento sincero per la preziosa messa a punto.
Raimondo Michetti
Grazie per l’opportunità di rispondere a così tante questioni stimolanti.
Le comunità epistemiche non sono impegnate in una lotta globale, che verrebbe neutralizzata facendo rete. Il significato stesso di comunità epistemica attribuisce ad esse “narrazioni” distintive che non hanno bisogno di essere messe in competizione con le altre, ma semmai inserite nei circuiti in cui oggi si muovono i flussi informativi e comunicativi. Il conflitto c’è ma non è tra comunità. Esso avviene in una fase antecedente, cioè nella fase in cui la comunità emerge come tale. Essa è il prodotto di un conflitto, tra soggetti, tra visioni, tra interpretazioni della storia.
A formare queste “narrazioni” concorrono anche quei sapere e tradizioni “lente”, che formano e rafforzano le identità dei luoghi. Questi saperi lenti certamente non svolgono un ruolo neutrale rispetto alla determinazione della qualità della vita. Una – tra le diverse – critiche al Pil come indicatore di benessere economico è che si ferma al puro conteggio numerico, mentre in una società in cui è ancora possibile la dimensione della lentezza (tradotto da economista – avere del tempo libero – per leggere, passeggiare, osservare ecc.) la qualità della vita è un dato che prescinde dalla produzione del puro reddito. Semmai si combina con esso. Per cui non confino i momenti e saperi lenti come produttivi di valore solo se collegati ad una qualche forma di produzione di mercato ma li considero come dimensioni del benessere e della qualità della vita individuale e anche collettiva – se organizzate per essere usufruite dalla collettività.
Luca Murrau