1. Nella prima parte di questo articolo pubblicata sullo scorso numero del Menabò abbiamo presentato una stima della copertura complessiva della contrattazione collettiva multi-employer sui lavoratori. Per disporre di elementi conoscitivi aggiuntivi e per far emergere alcuni fattori determinanti della pur non elevata eterogeneità nei tassi di copertura è utile disaggregare questi ultimi in base a diverse caratteristiche delle imprese.
Guardando alla classe dimensionale (fig. 1), si osserva che al crescere della dimensione dell’impresa aumenta sia la quota di imprese che dichiarano di applicare un Ccnl sia la corrispondente quota di lavoratori coperti. Tra le grandi imprese il tasso di copertura raggiunge il 94,7% tra i dipendenti e il 93,2% per il totale degli addetti. È evidente come le differenze secondo la dimensione siano associate alla presenza delle organizzazioni sindacali nelle imprese più grandi. Va comunque positivamente rimarcato il fatto che il 77,8% dei dipendenti e il 64,6% del totale addetti delle imprese da 1 a 4 dipendenti risultano coperti da un Ccnl. In sostanza è qui, in particolare, che si misura il meccanismo giurisprudenziale di estensione soggettiva dei minimi tabellari.
Anche l’area geografica di appartenenza dell’azienda costituisce un elemento rilevante nell’analisi dei livelli di copertura. Più specificamente, nelle imprese attive nelle regioni del Mezzogiorno continentale e insulare si osserva una minore copertura, riferendosi sia ai lavoratori dipendenti, sia al totale degli addetti.
*) Sono considerati coperti da contrattazione collettiva gli occupati dipendenti delle imprese che applicano un contratto collettivo nazionale di categoria.
1) Dipendenti di imprese che applicano un contratto collettivo nazionale di categoria sul totale dei dipendenti delle imprese attive
2) Dipendenti di imprese che applicano un contratto collettivo nazionale di categoria sul totale degli addetti delle imprese attive
Fonte: elaborazioni su dati Inapp-Ril 2018. Sono comprese le società di persone e di capitali attive nei settori privati esclusa l’agricoltura
Per quanto riguarda i settori (fig. 2), in alcuni di essi i tassi di copertura risultano piuttosto al di sotto della media nazionale. La copertura è minore nelle imprese del comparto “Alberghi e Ristoranti” (67,2%), ma anche in quelle afferenti a “Altri Servizi alle Imprese” (70,2%) e a “Industria Alimentare, Tabacco” (71, 1%). Nel settore “Alberghi e Ristoranti” la quota di imprese che dichiara di applicare un Ccnl è la più bassa e, inoltre, i livelli di copertura dei lavoratori – sia i soli dipendenti sia, e soprattutto, gli addetti nel complesso – sono i meno elevati. Si noti anche che nel settore “Istruzione, Sanità e Altri Servizi Sociali e Personali” (i cui dati sono riferiti al solo comparto privato) il tasso di copertura riferito agli addetti risulta il più basso tra tutti (67,3%). D’altro canto, è ipotizzabile che la minore copertura che si registra guardando gli addetti di “Alberghi e Ristoranti” e “Istruzione e Sanità” sia anche frutto di una maggiore presenza di lavoratori atipici rispetto ad altri comparti.
Per contro si registrano livelli più elevati di copertura tra i lavoratori dell’Industria estrattiva, dei Trasporti e nell’industria meccanica; in questo caso, non pesa neppure l’estensione a tutti gli addetti, segno questo di un mercato del lavoro meno “atipico” e anche della tendenziale presenza in questi comparti di imprese di maggiore dimensione, considerato che, come detto, la dimensione si associa a tassi più elevati di applicazione di un Ccnl.
*) Sono considerati coperti da contrattazione collettiva gli occupati dipendenti delle imprese che applicano un contratto collettivo nazionale di categoria.
1) Dipendenti di imprese che applicano un contratto collettivo nazionale di categoria sul totale dei dipendenti delle imprese attive
2) Dipendenti di imprese che applicano un contratto collettivo nazionale di categoria sul totale degli addetti delle imprese attive
Fonte: elaborazioni su dati Inapp-Ril 2018. Sono comprese le società di persone e di capitali attive nei settori privati esclusa l’agricoltura
2. La Proposta di Direttiva europea non si limita a dettare regole ai sistemi che affidano alla legge il compito di fissare un salario minimo. Essa fa di più: con un cambiamento di paradigma rispetto al recente passato, la Commissione Europea chiede agli Stati di promuovere il ruolo della contrattazione collettiva salariale di livello settoriale o intersettoriale.
Secondo le nostre stime, l’Italia presenta una elevata copertura della contrattazione collettiva settoriale: i Ccnl coprono l’88,9% dei lavoratori dipendenti e l’82,3% di tutti gli addetti; abbondantemente al di sopra quindi della soglia del 70%, sotto la quale l’Europa chiede di agire. Tuttavia, i nostri dati confermano che non è oro tutto ciò che luccica.
Alcune indicazioni, al riguardo, possono essere tratte dall’Indagine Inapp in ordine alla eterogeneità della copertura, la sua qualità e la possibilità di una sua estensione in favore dei lavoratori non subordinati. Ribadiamo che la copertura aumenta al crescere della dimensione aziendale, posto che nelle imprese medie e grandi il sindacato è maggiormente presente e la diffusione del lavoro atipico è sensibilmente minore. Oltre alla dimensione occorre segnalare altre fonti di eterogeneità tra le imprese: i) la presenza, crescente, di forme di associazionismo spurio e quindi di lavoratori formalmente coperti ma in base ad accordi scarsamente rappresentativi; ii) le differenze marcate nella distribuzione dei salari rispetto alle caratteristiche d’impresa (dimensione, territorio, performance aziendali) anche legata al ruolo della contrattazione settoriale. Tali fattori, anche in presenza di un livello minimo di salario orario, rischiano di generare effetti differenziati sul tessuto produttivo, sia in termini di sostenibilità economica, sia di spinta all’aumento dei livelli di efficienza delle imprese in reazione all’aumento del costo del lavoro. La presenza, inoltre, di una quota non irrilevante di lavoratori atipici, pone poi il problema, affrontato dalla Proposta, di estendere a questi ultimi il diritto alla contrattazione collettiva.
Numerosi studi riportano effetti positivi connessi al ruolo di autorità salariale della contrattazione collettiva: la spinta all’aumento dell’efficienza e della produttività delle imprese, un maggiore gettito fiscale e contributivo, una crescita della domanda aggregata in assenza di effetti diretti sui livelli occupazionali. A questi sono legati anche effetti positivi indiretti, associati al miglioramento della qualità della vita dovuto all’aumento del reddito disponibile delle famiglie con più bassi salari. Tuttavia, l’impatto positivo potrebbe essere temperato dalle numerose differenze tra le imprese attive nel sistema economico italiano. Ad esempio, la spinta all’aumento dell’efficienza potrebbe essere ridotta per le imprese caratterizzate in partenza da una minore capacità di adozione di innovazioni tecnologiche e organizzative; così come le difficoltà di un subitaneo adeguamento ai minimi potrebbero essere molto rilevanti per le piccole e per le micro-imprese. Da ciò sembrerebbe emergere l’opportunità di una modulazione dei salari minimi sia in termini temporali, sia in termini di livello sulla base di una appropriata considerazione dei parametri legati alle specificità delle imprese.
Concludendo, l’Italia sembrerebbe adeguatamente protetta da una elevata copertura della contrattazione collettiva. Tuttavia, da un’analisi disaggregata emergono preoccupanti difetti nella copertura in linea con i punti dolenti dello sviluppo del sistema produttivo e quindi del sistema di negoziazione collettiva, soprattutto se si considerano i settori in cui è più presente il lavoro atipico.
A questo si aggiunga la questione della crescente diffusione della contrattazione non rappresentativa che non solo fiacca il ruolo protettivo ed anche anticoncorrenziale della contrattazione collettiva nel suo complesso, ma finisce per rendere il dato sulla copertura quasi meramente figurativo. L’introduzione di un salario minimo legale potrebbe attenuare, se non eliminare, gli effetti sui salari dei contratti pirata. Sebbene i contratti pirata raramente agiscano sui minimi tabellari, piuttosto su altri elementi del costo del lavoro (turni, straordinari, ecc.), l’esistenza di una soglia minima invalicabile potrebbe avere l’effetto generale nel sistema economico di abbassare, per così dire, la posta in gioco e di “impoverire” la convenienza economica degli stessi.
Peraltro, l’intervento legale – ce lo chiede, finalmente, l’Europa – deve avvenire promuovendo al contempo la contrattazione collettiva multi-employer, tenendo conto dell’esigenza, ormai imprescindibile, di un allargamento al mondo del lavoro atipico. Proprio il pieno e genuino sviluppo del livello gerarchicamente superiore, infine, potrebbe fare da viatico all’estensione della contrattazione collettiva di secondo livello (notoriamente poco sviluppata in Italia), che dovrebbe essere in grado di tenere conto dei fattori di eterogeneità, recuperando a livello aziendale o territoriale le differenze nel carico di adeguamento. Inoltre, potrebbe costituire anche un punto di riferimento per ottimizzare, in ultima analisi, l’applicazione di un livello minimo legale del salario, nella prospettiva di utilizzare in modo complementare e coordinato i due modelli di determinazione del salario minimo: intervento legale e contrattazione collettiva.