Il rapporto tra Stato e mercato, e in particolare la natura dell’intervento dello Stato nell’economia, è forse il tema più urgente che questa crisi consegna alla riflessione teorica. La storia delle vicende economiche di questi anni rappresenta una evidente falsificazione del paradigma liberista secondo il quale il mercato è un meccanismo dotato di una capacità di autoregolazione tale da consentirgli di perseguire finalità sociali facendo sostanzialmente a meno dell’intervento dello Stato. Di fronte a questo evidente dato di fatto una aggiornata riproposizione del modello socialdemocratico è apparsa a molti intellettuali, da Tony Judt a Jürgen Habermas, la risposta più efficace che può mettere in campo la sinistra. E non sono mancate neanche autorevoli voci di chi, vedendo nello stato-imprenditore un antidoto ai mali della crisi, ha invocato persino un ritorno alle partecipazioni statali.
Per la sinistra, e per l’intero Paese, sarebbe un grave errore ridurre i problemi che ci sta ponendo la crisi ad una alternativa tra un liberismo senza regole ed uno statalismo (sia pure socialdemocratico), da cui l’Italia si è faticosamente emancipata e che in un momento di crisi e in questo quadro europeo sarebbe pressoché impraticabile. E’ invece opportuno che anche la sinistra riscopra una grande tradizione di “interventismo liberale” (come lo definiva Einaudi), proposto da liberali sensibili alle istanze socialiste e da socialisti che avevano capito che l’emancipazione, la solidarietà e l’eguaglianza, se non hanno una matrice liberale, rischiano di produrre mali più gravi di quelli che intendono curare.
Sono stati soprattutto i teorici dell’”Economia sociale di mercato” (Eucken, Röpke, Müller-Armack, Erhard, Rüstow), liberali che hanno cercato il punto più avanzato di equilibrio tra libertà e uguaglianza, a tracciare il profilo un “interventismo liberale” che nelle loro intenzioni doveva rappresentare una “terza via” (Röpke) tra liberismo e statalismo. La tesi storica e teorica avanzata da questi economisti, sociologi, giuristi e filosofi è tanto semplice quanto condivisibile: l’“economia di mercato” ha bisogno di uno stato liberale “forte” che la difenda dalle tendenze degenerative che di volta in volta presenta il “capitalismo storico” (Röpke). Questi intellettuali, così come Einaudi, che ha subito una forte influenza di questa tradizione di pensiero, pensavano soprattutto ai monopoli e agli oligopoli, a cui oggi può essere aggiunta quella ipertrofia finanziaria che è alla base della crisi economica di questi anni e quella deriva plutocratica che costituisce la più grave minaccia per le nostre democrazie.
Per evitare tali degenerazioni è necessario uno Stato “autorevole e imparziale”, “forte”, ma “non affaccendato” (Röpke), “custode dell’ordinamento concorrenziale” (Eucken), in grado di imporre un “ordine costituzionale” fatto di regole e autorità indipendenti, che delimitino e proteggano lo spazio entro cui il mercato possa dispiegare la propria capacità di autoregolazione. Uno Stato – precisa Röpke – che sia in grado “di difendere il capitalismo contro gli stessi capitalisti che volessero scaricare le loro perdite sulla comunità”. E tuttavia questo “interventismo liberale” è ben diverso da quello dei pianificatori, in quanto rispetta quattro inderogabili principi: a) prescrive le “regole del gioco economico” e non i “processi”, cioè i comportamenti dei singoli attori; b) attua “interventi di adeguamento” della concorrenza rispetto a principi di solidarietà, e non di mera “conservazione” delle forme storiche che di volta in volta assume il capitalismo; c) pone in essere solo “interventi conformi” all’economia di mercato, evitando misure, come ad esempio lo stravolgimento dei sistema dei prezzi, che “finirebbero per trasferire all’autorità quella funzione disciplinatrice prima esercitata dal mercato”; d) si attiene al principio di sussidiarietà, rispettando l’autonomia degli individui e degli altri “corpi intermedi” pubblici e privati.
Il principale scopo di questo “interventismo liberale” è quello di orientare l’economia di concorrenza verso obiettivi di solidarietà sociale, utilizzando due strumenti fondamentali: una “politica della concorrenza” costumer oriented e interventi, come il reddito minimo di cittadinanza e altre forme di protezione dei meno abbienti, per migliore le chances di vita dei più svantaggiati. Combattendo i monopoli (considerati da Einaudi, “un ladrocinio commesso ai danni della povera gente”), gli oligopoli, le rendite e i privilegi protetti, è possibile trasformare la concorrenza da “fine in sé” a “mezzo” per il progresso sociale e a la solidarietà, orientando “la ricerca imprenditoriale del profitto al servizio diretto del consumatore” (F. Böhm). Inoltre, l’economia di concorrenza, essendo il mezzo più efficace per produrre e per far circolare conoscenze e rappresentando il meccanismo più efficiente per allocare e distribuire le risorse, è anche il miglior sistema per offrire mezzi a coloro che non sono in grado di competere, al fine di metterli nelle migliori condizioni per realizzare i propri obiettivi. Non deve dunque meravigliare che i teorici dell’Economia sociale di mercato, e in particolare Röpke e Einaudi (ma su questa linea si colloca lo stesso Hayek), in nome del “primato dell’etica” sull’economia, siano arrivati a proporre un reddito minimo garantito, insistendo, come fa Einaudi, sulla necessità di una “legislazione sociale” ispirata al “principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita”, attraverso un intervento dello Stato che migliori le chances dei meno abbienti e che “avvicini, entro i limiti del possibile, i punti di partenza” degli individui. Una proposta, questa, che non solo non è in contrasto con la logica della concorrenza, ma che serve proprio a potenziarne le capacità di innovare e di generare progresso ed equità, per due precise ragioni: a) garantendo un sostegno economico a coloro che sono svantaggiati, si amplia la platea dei soggetti in grado di competere e quindi di arricchire con le proprie risorse conoscitive e materiali l’ordine concorrenziale, il quale – in questo modo – potenzierà la propria capacità di problem solving; b) assicurando un reddito minimo a tutti, si rinsalda quell’ambiente etico e sociale, che è un presupposto fondamentale del buon funzionamento del mercato.
Implacabili critici dello statalismo e della pianificazione, i teorici dell’“Economia sociale di mercato” attaccano da liberali ogni forma di laissez-faire, tanto che, osserva Einaudi, per i liberali “bisognerebbe inventare un altro nome” rispetto a quello di “liberisti”, “per quanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laissez-faire”. E chi sostiene che “il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato e di assoluto lasciar fare o lasciar passare, non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista”.
Wilhelm Röpke non ha esitato a definire quella tracciata dall’“Economia sociale di mercato” una “terza via” rispetto all’economia pianificata e al liberalismo del laisser-faire. Una “terza via” liberale e solidale, ispirata a un “umanesimo economico” che mette al centro dell’organizzazione economica e dell’intervento politico la persona umana e che assegna allo Stato il compito di aiutare i più deboli proteggendo la concorrenza e assicurando “a tutti gli uomini un punto di partenza che gli consenta di sviluppare le loro attitudini” (Einaudi).
Questa grande tradizione di pensiero, che ha dato un contributo determinante per la rinascita della Germania e dell’Europa (non solo Erhard e Adenauer, ma anche Röpke e Müller-Armack, hanno avuto un ruolo politico di primo piano nella Germania del dopoguerra, così come Einaudi in Italia), ha definito principi che oggi sono una preziosa risorsa di fronte ai problemi dei nostri tempi. Non è dunque un caso che negli ultimi anni ci sia stato in tutta Europa un grande ritorno di interesse per questi autori. Oggi ci sono le condizioni affinché anche la sinistra riscopra queste idee e si renda conto che autori come Eucken, Erhard, Müller-Armack, Röpke e, perché no, lo stesso Einaudi, non solo si pongono in sintonia ideale con gli ideali del liberalsocialismo di coniugare libertà individuale e giustizia sociale, ma danno sostanza economica e giuridica a quello slancio etico-politico che, in autori come ad esempio Mill, Dewey, Calamandrei, Rosselli, Calogero, Bobbio, era rimasto spesso su un livello tropo astratto di enunciazione di principi. Basta solo ricordare che Rosselli, che di Einaudi è stato assistente alla Bocconi, nel suo fondamentale saggio Socialismo liberale non esita a scrivere che il socialismo va considerato come lo “sviluppo logico del principio di libertà”, un “liberalismo in azione, libertà che si fa per la povera gente”, perché, se si è coerenti, “non si può essere liberali senza aderire attivamente alla causa dei lavoratori”. E tuttavia, mette in guardia Rosselli, occorre sviluppare politiche di solidarietà restando “liberali” e combattendo quel “mostro moderno che sta divorando la società” rappresentato dallo statalismo.