Ma insomma, chi nel Regno Unito avrà l’onore e il privilegio di attivare quel procedimento, previsto dall’art.50 del Trattato di Lisbona che regola il recesso dall’Unione Europea? Il Governo di Sua Maestà, o non per caso il Parlamento?
Il quesito era stato sollevato con il caso Miller, e la risposta definitiva è stata data dalla UK Supreme Court (d’ora in poi: la Corte) con la sentenza che ha risolto, in ultimo appello, la vexataquæstiodell’attribuzione di un’iniziativa che era materia di un’oggettiva contesa tra Esecutivo e Parlamento, soggetti titolari di due poteri: la Prerogativa ancora formalmente propria di una Corona che un tempo era governante ma la cui potestà da secoli nella sfera dell’Esecutivo, e la Legislazione che dal secolo delle rivoluzioni è esclusiva dei due rami parlamentari. Ancora una volta riaffiorano, in un sistema costituzionale a formazione storica, evolutivo e che si considera comunemente “unwritten”, antiche questioni che alla prova dei fatti, lungi dall’essere meri oggetti di antiquariato, si rivelano moderne, attuali e determinanti per l’andamento degli affari nazionali.
Votando nel referendum sul Brexitl’elettorato britannico aveva confermato di essere quel soggetto collettivo che in un attimo di distrazione A.V. Dicey, in età tardo-vittoriana autentico nume della dottrina della sovranità parlamentare, riconosceva essere il “sovrano politico” del Paese. Sebbene di stretta misura, il voto popolare aveva già deciso sulla condotta da osservare nei riguardi dell’Unione Europea: abbandonarla e recuperare la sovranità perduta. Presumendo, con una sicurezza rilevatasi eccessiva, che l’applicazione del fatidico art.50 rientrasse ovviamente nella competenza del potere esecutivo nella sua qualità di esercente della Prerogativa, la premier TheresaMay rendeva manifesta la sua volontà di aprire il procedimento e avviare un hard Brexit. Di conseguenza, nonostante i dissensi emersi dall’opposizione laburista e dai nazionalisti scozzesi, la Camera dei Comuni approvava una risoluzione che investiva l’Esecutivo del potere di notificare l’abbandono dell’Unione: con la presenza ai Comuni di una maggioranza conservatrice con preminente orientamento euroscettico, ben difficilmente l’esercizio “ministeriale” della Prerogativa trovava impedimenti in questo passaggio parlamentare. Ma con il ricorso presentato alla High Court of Justicesorgeva un significativo ostacolo. Tale (come già osservato in questa Rivista, 53-2016), in sintesi, la questione su cuitre giudici dell’Alta Corte erano chiamati a esprimersi: “comunque assodata la non vincolatività del referendum, chi è legittimato ad attivare l’art.50 e condurre il Regno Unito fuori dall’Unione? Il Governo o il Parlamento?”. E dunque quale potere si attiverà, la Prerogativa o la Legislazione? E la sede della decisione sarà Whitehall o Westminster? La Divisional Court risolveva a favore del Parlamento e della sua sovranità, e su ricorso del Secretary of State for Exiting the EuropeanUnion in qualità di Appellant di parte governativa, il quesito era portato alla conoscenza della Corte.
La questione era, come è facile intuire, di enorme importanza per rimettere in sesto un equilibrio costituzionale in cui si stavano verificando a forti e contrastanti pressioni.
Per giudicare un caso di tale portata la UK Supreme Court of the United Kingdom si riuniva, per la prima volta nella sua storia, en banc ovvero al completo della sua composizione: undici giudici invece dei soliti tre. La decisione (con otto giudici a favore e tre dissenzienti) era resa pubblica, nell’attesa generale, il 24 gennaio 2017.
Di questa sentenza, relativamente semplice nella sua ratio ma ricca di numerosi elementi di complessità quanto alle questioni di rango costituzionale che la Corte, con l’energica presidenza di Lord Nauberger, ha esaminato e a cui ha dato risposta, molto si sta dicendo. Si dice, per esempio, che con essa è riaffermata la prevalenza della decisione parlamentare sulla pretesa governativa di condurre il Regno Unito al definitivo distacco dall’Unione, attivando l’art.50, e di fare ciò avvalendosi, come preannunciato dalla premierMay, della Prerogativa. La Corte, infatti ha confermato quanto era stato risolto dai tre giudici della Division Court (alti magistrati che irresponsabilmente il Daily Mail, untabloid tra i più euroscettici e populisti, additava ai suoi lettori come “Enemiesot the People” per giunta pubblicandone in copertina le fotografie) e l’ha fatto non accogliendo il ricorso del Segretario di Stato. In tal modo è diventato ben chiaro che l’uso governativo della Prerogativa, complemento del potere che un tempo apparteneva ai re quali governanti del Paese, non può applicarsi all’attivazione dell’art.50 che prevede un’azione di notifica per cui, ha ribadito la Corte, è necessario un atto legislativo e dunque un intervento, l’unico costituzionalmente legittimo, del Parlamento.
Occorre precisare che la Corte ha distinto fra due fattispecie che si caratterizzano in base a una profonda, ineludibile differenza: una cosa è intervenire per la modifica di trattati internazionali, ivi compreso quelli inerenti all’Unione, e ben altra è condurre il Regno Unito alla dissoluzione del vincolo europeo. Nel primo caso la potestà governativa è legittimamente esercitata, come in generale stabilisce la Rule 2 che la Corte ha sintetizzato nella sezione 277 della sentenza: «the making and unmaking of treatiesis a matter of foreign relations within the competence of the government». Nel secondo caso, un intervento governativo su leggi del Paese è assolutamente da escludersi, e in tal senso si esprime, nella medesima sezione, la Rule 1: «the executive (government) cannotchange law made by Act of Parliament, nor the common law».
È questol’argomento essenziale verso cui si è orientata l’intera decisione.
Nel lontano 1972, con l’ingresso britannico nella Comunità Europea, dopo i negoziati governativi, fu deliberato dal Parlamentoattraverso uno strumento di statute law, che la dissoluzione del vincolo europeo non può che essere decisa con un Atto di analoga natura, a meno di non trasferire all’Esecutivo una potestà che, violando l’equilibrio dei poteri, entrasse in contraddizionecon la sovranità parlamentare. Con l’EuropeanCommunitiesActdel 1972 a Westminster si deliberava l’adesione, aprendo il passo a un lungo processo di integrazione e all’accoglienza del diritto comunitario nell’ordinamento domestico. In tal modo si verificava anche per un Regno Unito insulare quella limitazione di sovranità che in talune costituzioni europee è prevista formalmente, e alla quale il Parlamento aveva acconsentito. Quest’adesione comportava l’immissione diretta nel diritto britannico di fonti di produzione comunitaria (o estranea, perfino aliena, come è stato percepito da diverse generazioni di euroscettici) e prevedeva che ogni ulteriore evoluzione del rapporto del Regno Unito con l’Europa si sarebbe realizzata attraverso un dinamismo a cui il Governo britannico, e non il Parlamento, avrebbe preso parte attiva con trattative rientranti nella sua sfera potestativa. Così effettivamente avveniva con i nuovi negoziati che condussero al referendum del 1975 e, anni dopo, con tutti i Trattati e, in essi, con le clausole di opting out. Ma di ben diversa natura, ha argomentato la Corte, è una decisione che comporti l’abbandono dell’Unione poiché, in quanto abrogativa dell’EuropeanCommunitiesAct, in questo caso un uso della Prerogativa si configurerebbe come un’indebita incursione dell’Esecutivo in un ambito che gli è storicamente estraneo, e pertanto è categoricamente da escludere. Ergo: la determinazione di attivare l’art.50 non può competere che al Parlamento che a sua volta, adeguandosi al mandato emerso dal voto popolare del 2016,deciderà di dare all’Esecutivo l’incarico di occuparsi della gestione concreta della notificazione ex art.50 e delle conseguenze che ne deriveranno, conducendo il Paese al distacco dall’Unione. Questa decisione, ha ribadito la Corte, va perfezionata attraverso un Atto legislativo e non con una semplice risoluzione della sola Camera dei Comuni quale quella approvata nel dicembre 2016, il cui senso è apprezzabile solamente per il suo contenuto politico e non mai assimilabile a una determinazione che abbia efficacia normativa.
Ricondotta nelle sale di Westminster la decisione primaria, il Parlamento non si è fatto molto attendere. Nella seduta dell’8 febbraio la Camera dei Comuni ha approvato, con 494 voti contro 122 e senza emendamenti, l’European Union (Notification of Withdrawal) Bill, per cui «The Prime Ministermaynotify, under art.50(2) of the Treaty on European Union, the UnitedKingdom’sintention to withdraw from the EU». Questo bill è stato trasmesso alla Camera dei Lord dove più consistenti si prevede che siano le obiezioni sulla condotta europea del Regno Unito, e che non è direttamente condizionata dalle dinamiche di maggioranza-opposizione che imperano nell’aula dei Comuni. La discussione dei Lord avrà inizio, stando al calendario dei lavori, il 20 febbraio 2017.
Non si dirà in questa sede dei due altri ricorsi, provenienti da casi giudicati in Irlanda del Nord, che rientrano nella categoria dei cd. “devolution cases” e che sono stati oggetto del giudizio della Corte. Respingendoli, questa ha ribadito l’opportunità che in determinate contingenze si osservi scrupolosamente la Sewel convention la quale, di contro alla pretesa nordirlandese di inserirsi criticamente nel processo di distacco dall’Unione, prevede che, qualora da leggi del Regno Unito non derivino mutamenti dello statuto delle autorità devolute in Scozia, Galles e Irlanda del Nord, sia esclusa la loro partecipazione alla decisione legislativa. Purtuttavia è ben prevedibile che le conseguenze della realizzazione del Brexit ricadano sulle aree di devolution, e pertanto non mancheranno ulteriori giudizi della Corte.
Quali conclusioni trarre? Il valore della sentenza è immenso nella valutazione di chi segue le evolutive vicende della costituzione britannica, dal momento che per giungere a una decisione che, tutto sommato, non era particolarmente disagevole, la Corte ha elaborato una lezione sulla sovranità, e in particolare sulla sovranità parlamentare, confermando fino a qual punto la dogmatica diceyana basata sulla supremazia del Legislativo conservi ancora tutta la sua validità come argine alle tendenze disgregative dell’epoca presente. L’orientamento della Corte può apparire conservativo o puramente difensivo della tradizione. Nondimeno, leggendo tra le righe, si può suggerire che, sebbene gli eminenti giudici abbiano categoricamente escluso di occuparsi del merito della decisione britannica di lasciare l’Unione, la vera posta in gioco del dibattito in corso è la dignità dell’istituzione parlamentare e, con essa, la salvaguardia della rule of law. Infine, un’ulteriore annotazione: dal 2009 la Corte Suprema emana, su ricorsi provenienti dall’intero Regno Unito e dai suoi diversi sistemi o sotto-sistemi giuridici, sentenze inerenti a diritti fondamentali e a casi di devolution. Ma oggi con la decisione sul caso Miller si è espressa anche su quello che, in Italia, definiamo un conflitto di attribuzione, e un conflitto allo stato puro. Anche se i nostri amici britannici continuano a respingere l’ipotesi, chi potrà d’ora in poi negare seriamente che la Corte Suprema del Regno Unito si stia trasformando in una corte costituzionale?