Nel mese di luglio di quest’anno il New York Times ha pubblicato le conclusioni di una ricerca condotta da un gruppo di economisti americani sui dati della crisi.
In Italia ne ha dato notizia un supplemento di La Repubblica con un ampio e limpido articolo di Federico Rampini. Il dato accertato dagli economisti americani e cioè che la crisi ha colpito in modo più grave i Paesi desindacalizzati, a partire dagli Stati Uniti, e in maniera più leggera invece i Paesi con un forte livello di sindacalizzazione, a partire dalla Germania avrebbe potuto infatti provocare un fertile dibattito in un paese come il nostro in cui le misure per la ripresa vengono sempre rinviate a un tempo futuro e dove nessuno si è sentito di lanciare un’idea nuova, per rilanciare l’economia.
Tanto più fruttuoso avrebbe potuto essere un dibattito del genere qualora ci si fosse spinti a cercare di capire il perché del nesso tra il livello della crisi e il livello della sindacalizzazione. Su tale tema il sociologo avrebbe probabilmente assunto il dato sulla sindacalizzazione come un indice del grado di socializzazione di un paese e dunque come l’indice di ripresa di una società del “noi” a fronte della società degli “io” entrato ovunque in crisi. Altri si sarebbe potuto spingere più avanti individuando nella sindacalizzazione un grado essenziale della partecipazione solidale dei cittadini alle scelte di fondo di un paese.
Io, modestamente da elementare cultore della economia classica, alle cui verità mi hanno richiamato in tempo fascista uomini come Piero Sraffa e Raffaele Mattioli avrei forse potuto ricordare che il valore in economia è la quantità di lavoro comunemente necessaria a produrre una merce e mettere a confronto come espressione più facile di questo valore il salario quale risulta da un avanzato processo sindacale e cioè da vertenze – scontri – innovazioni – compromessi costituenti con la partecipazioni di milioni di cittadini il processo di sindacalizzazione.
E’ vero che anche in assenza di esso il mercato esprime lo stesso un salario. Ma quale salario sarà espresso da un mercato che non è più quello smithiano ma è il mercato delle finanziarie prive di regole, dei monopoli e degli oligopoli? Sarà inevitabilmente un salario che tende a coincidere con il salario di sussistenza del paese più povero appartenente all’area globalizzata e dunque un valore notevolmente inferiore a quello prodotto dal processo di sindacalizzazione. E come si può pensare che se il valore di riferimento è collocato così in basso non siano negativamente influenzati da ciò tutti gli altri valori dell’economia? In ogni caso non sarà certo da questo salario-valore che verrà una spinta all’innovazione, alla ricerca, agli investimenti tesi a ridurre la quantità di lavoro necessaria per una merce.
Ma innovazione, ricerca, investimenti sono condizioni assolutamente necessarie per una ripresa. Ma forse proprio perché il dato della ricerca americana porta a questa conclusione che si è preferita scegliere la strada del silenzio e ignorare uno dei pochi stimoli che dagli economisti è venuto alle note riflessioni sulla crisi. Per quanto riguarda il breve periodo appare evidente la correlazione tra bassi salari e scarsità della domanda sul mercato.
Licenza foto: archivio storico de L’Unità
Legati a doppio filo alla professionalità specializzata, la crisi dei settori industriali ha buttato sul lastrico migliaia di persone.
Con il declino si è introdotto il concetto di riqualificazione professionale, una rete di salvataggio che lo Stato spesso non è in grado di dare, così come non vuole e non può sostenere un welfare di qualche competenza, capacità, affidabilità.
La “somministrazione” del lavoro azzera qualsivoglia competenza specifica e specialistica, per innescare un perverso “usa e getta” della manodopera, di generica preparazione e nebulosa qualificazione. Non serve accedere a competenze specifiche, né serve acquisire competenze settoriali in un sistema che non le richiede, in un contesto che non prospetta continuità bensì impone una fluttuante ed eterna precarietà.
La dismissione, la crisi economica, ovvero gli effetti nefasti della privatizzazione selvaggia e della terziarizzazione del lavoro, la smaterializzazione delle imprese in giochi di capitali e societari hanno però conseguenze concretissime.
Se le difficoltà economiche delle vite individuali faticano a ritagliarsi una attenzione, e le pagine dei giornali registrano le crisi sotto la forma numerica normalizzante di statistiche e misurazione dei consumi e ricchezza nazionale o regionale pro capite, d’altra parte in occasione di gravi incidenti con morti e feriti, altra faccia della stessa medaglia, emergono con evidenza le punte avanzate della malattia epidemica ancorché strisciante nella attuale società intrappolata fra capitali e consumi.
I cantieri edili – luoghi dell’anonimato, oggi soprattutto extracomunitario, clandestino, dove gli incidenti sono numerosi e mortali, in assenza delle più elementari norme di sicurezza – sono stati raccontati da Loach come microcosmi, sintesi ad alta concentrazione della società inglese contemporanea, ma estensibili senza troppo sforzo anche ai nostri paesaggi urbani.
La metafora del cantiere edile con, da una parte, la committenza invisibile che trova emanazione nel caporalato che preme, sorveglia, punisce; dall’altro una congerie di individui con storie diverse e obiettivi inconciliabili, fa da specchio ad un contesto sociale tirato su e tenuto insieme in qualche modo. A dire cioè che la coesione di ceto fatica a imporsi sulle individualità in lotta ciascuna per la propria sopravvivenza spiccia o per assecondare le personali furberie.
Allo stesso modo, la realtà di suburbi e periferie racconta le difficoltà quotidiane – disoccupazione, insufficienza dei sussidi, degrado ambientale e umano, l’arte di arrangiarsi. Sul tema della professionalità poi si sono disegnate due sostanziali varianti, una tragicomica e l’altra drammatica.
Questi lavoratori spesso si trovano “al di qua” del lavoro: in quanto disoccupati non possono riguadagnarsi un ruolo attraverso la professionalità – strumento inservibile – e restano ai margini. Una volta allontanati dal mondo del lavoro, non si delinea alcuna possibilità di rientrarvi; bisogna improvvisare lavoretti ed escamotage proprio perché la professionalità non è più richiesta: anche noi abbiamo una repubblica “fondata sul lavoretto” – che disgrazia questi disoccupati privi di spirito di iniziativa! -; alla faccia dello spirito e degli articoli della Costituzione, i disoccupati vengono tacciati di incapacità di arrangiarsi e dipinti come parassiti sociali.
Nella dissipazione del tessuto sociale che ne deriva va a definirsi la crisi personale e professionale. La cultura del lavoro è qualche cosa di istintivo e forse genetico, che emerge per contrasto con una realtà che vi si oppone volta a volta definendo forme e modi di quel territorio.
Non a caso è stata l’Inghilterra thatcheriana a provvedere all’espressione urgente di queste problematiche, Noi siamo venuti in coda, e la classe operaia non ha ancora trovato una voce disposta a rappresentarla.
I media si sono infine accorti che la classe media si sta inabissando in un impoverimento progressivo, e il suo potere d’acquisto si abbassa avvicinandosi a quello degli strati di popolazione più poveri.
Sono informazioni e notizie accessibili e diffuse, entrate oramai nel senso comune, ma quando già oltre una ventina di anni fa l’Inghilterra governata dalla Thatcher manifestava la propria opposizione alla società che si andava delineando, non Siamo stati pronti a cogliere quei segnali e a far nostra quella resistenza, quegli scioperi dei minatori, quei sussulti di piazza…CHE ANTICIPAVANO “L’ O G G I “.