Da un po’ di tempo a questa parte, quando mi capita di riflettere sul mio ambiente di lavoro (l’università italiana) mi viene in mente la leggenda dei due mostri sui lati opposti dello Stretto di Messina. Si narra che chiunque navigasse da quelle parti era costantemente minacciato da una parte da Scilla (“colei che dilania”) e dall’altra da Cariddi (“colei che risucchia”). La mia percezione è che anche l’università italiana in questa fase storica sia stretta tra coloro che vogliono risucchiarla verso un passato di conservazione e baronato, e coloro che finirebbero per dilaniarla, essendo convinti che domani mattina i nostri cento atenei possano e debbano istantaneamente trasformarsi in cento Harvard o MIT. Si tratta, beninteso, di due gruppi non omogenei (i primi sono incommensurabilmente più numerosi dei secondi) e ben mimetizzati: a parole entrambi rappresentano le loro opzioni come “il cambiamento di cui c’è bisogno”, e sostengono il merito, la trasparenza, il buon senso. Ma è solo quando si viene alla polpa che rivelano il loro vero tipo.
Il sottoscritto è a disagio perché non appartiene a nessuna di queste due categorie. Sono infatti genuinamente convinto che l’università italiana – pur con meritorie eccezioni – sia stata affossata da decenni di potere baronale, in cui spadroneggiava, forse in proporzioni persino maggiori, lo stesso virus che attanagliava altre dimensioni del nostro settore pubblico: allocare la risorsa non secondo criteri di efficienza, ma secondo logiche più o meno proporzionali di remunerazione di gruppi pre-costituiti. Che si trattasse di uno stanziamento di bilancio, un appalto, una concessione, un immobile demaniale. O di un concorso universitario. Tale situazione è rimpianta non tanto dai “vecchi baroni” (non sono più poi tanti, in fondo), ma dai giovani o vecchi “delfini” a cui era stata fatta una tragica promessa implicita (o a volte pure esplicita): “tu stai buono, non rompere troppo le scatole, non preoccuparti tanto della tua produzione scientifica o della qualità della didattica, che poi ci penso io”. Costoro, tendenzialmente, sono disposti ad accettare un’unica ricetta quando si parla di riforma: tenere tutto cosi com’è, ma aumentare i finanziamenti pubblici, in modo che quella vecchia promessa possa essere mantenuta. Il resto può andare a farsi benedire.
Sono anche però genuinamente convinto che l’università italiana vada guidata con decisione ma con gradualità verso una transizione che la porti ad adattarsi ad un contesto di riferimento che, semplicemente, è profondamente diverso da quello del passato. Allontanando il rischio gattopardesco del cambiare affinché nulla cambi, ma anche smettendo di credere (o far finta di credere) che l’anno prossimo saremo tutti Harvard. Perché questi non sono gli Stati Uniti, noi non siamo “ammmericani” e – you know what – forse non è del tutto neanche una brutta cosa, after all.
Le stelle polari di tal ragionamento, allora, non possono che essere due:
- Disegnare una transizione graduale ma certa verso un’allocazione delle risorse pubbliche esclusivamente basata su due pilastri: la qualità della produzione scientifica e la qualità dell’attività didattica (integrata dal costo-standard per studente). Perché gli output dell’università sono due (ricerca e didattica), e vanno misurati per qualità, non per quantità. Cosa? E’ difficile trovare criteri oggettivi per valutare ricerca e didattica? Ma certo che è difficile. Ma è sempre meglio dell’alternativa.
- Adeguare il contesto istituzionale e giuridico al contesto di mercato in cui si trovano gli atenei.
Qualcuno potrà storcere il naso, ma gli atenei italiani si trovano in un contesto di mercato. Definiamo qui “mercato” un contesto in cui si incontrano agenti (chi domanda e chi offre) che hanno possibilità alternative di scelta. Oppure, se preferite, il luogo in cui istituzioni competono per accaparrarsi gli input migliori (i quali hanno possibilità di impiego alternative), e producono i loro output gareggiando con altri. Un ateneo compete con altri per assicurarsi il docente più bravo a far ricerca o più dotato nell’attività didattica, oppure il dottorando più promettente; costoro, a loro volta, hanno possibilità alternative: altrimenti non si spiegherebbe la sempreverde retorica sui “cervelli all’estero”. La presenza sempre più aggressiva degli atenei nelle giornate di orientamento nelle scuole superiori ci dimostra che si compete (spesso all’interno dello stesso ateneo) per assicurarsi la maggior quantità e qualità di nuovi studenti iscritti. E lo si fa cercando di rendere disponibile un’offerta formativa di qualità e migliore di quella dei propri concorrenti. Allo stesso modo, le ricerche scientifiche hanno mercato: si compete con altri studiosi della disciplina per piazzare i propri articoli sulle riviste specializzate; oppure si compete per l’assegnazione di fondi di ricerca nazionali o internazionali.
L’università, insomma, è già da tempo un contesto di mercato. E sempre più spesso si tratta di un mercato di dimensioni globali. E tale considerazione non ha proprio nulla a che vedere con la proprietà pubblica o privata del capitale. Chi scrive è assolutamente convinto che l’università italiana debba rimanere non semplicemente pubblica, bensì orgogliosamente pubblica. Del resto sono pubbliche tutte le università inglesi, e persino alcune delle più prestigiose università americane (per esempio Berkeley). Sono pubbliche, ma si muovono in un contesto di mercato, così come sopra definito.
Se questa analisi è accettata, allora il passo successivo è porsi la seguente domanda: l’infrastruttura giuridico-istituzionale che attualmente regge gli atenei italiani (il diritto amministrativo) è adeguata a supportare un contesto di mercato, tanto più se di dimensioni internazionali o globali?
La mia risposta è un convinto “no”.
Il diritto amministrativo è, per sua definizione, atto a supportare e regolare contesti diversi da quelli di mercato, vale a dire l’attività di produzione di beni pubblici e di regolamentazione che è propria della pubblica amministrazione. Non opera in contesti di mercato un comune che emana un regolamento edilizio o un’ordinanza sul pubblico decoro, il Ministero dell’Ambiente quando rilascia una valutazione d’impatto ambientale. O il Ministero dell’Economia quando commissaria una banca fallita. In tutti questi casi, e in molti altri, la pubblica amministrazione garantisce la produzione di un bene pubblico, non rivale (=se lo consumo io, non è detto che non lo possa consumare anche tu) e non escludibile (=non posso escludere nessuno dalla sua fruizione). Spesso e volentieri le pubbliche amministrazioni trovano conveniente eludere il diritto amministrativo creando le cosiddette società partecipate. Lo fanno esattamente perché, dovendo confrontarsi con un contesto di mercato, trovano più adatto utilizzare l’infrastruttura giuridica del diritto privato piuttosto che quella del diritto amministrativo. Certo, questo comportamento ha creato distorsioni nel tempo: gli enti pubblici creavano società partecipate (le cosiddette “strumentali”) anche per svolgere funzioni istituzionali, che avrebbero più propriamente essere regolate dal diritto amministrativo. Ma trattasi di una distorsione/patologia – in via di risoluzione, peraltro – che non intacca il concetto di base: quando si opera in contesti di mercato, anche se si è interamente (o orgogliosamente) pubblici, l’infrastruttura giuridica del diritto amministrativo non va più bene.
E’ allora davvero impensabile immaginare la fuoriuscita (magari graduale, magari opzionale) degli atenei italiani dal regime di diritto amministrativo? E’ possibile – come in Gran Bretagna – trasformarli in fondazioni a capitale interamente pubblico ma regolate dal diritto civile? E’ così sbagliato pretendere che il governo di una realtà competitiva come la ricerca/didattica non avvenga nelle aule dei TAR bensì nelle aule universitarie e nelle aule dei seminari scientifici?
Le conseguenze sarebbero soprattutto tre:
- Finirebbe quello che ai miei occhi è soltanto un ingiustificato privilegio, vale a dire la natura pubblicistica del contratto di lavoro dei professori universitari (abilmente sfuggiti alla privatizzazione del pubblico impiego del 1993). E che ne determina, tra l’altro, il fatto che le dinamiche retributive non siano oggetto di contrattazione tra le parti, ma semplici regali del “sovrano”, se e quando ne ha voglia. Nello scenario alternativo, invece, i contratti dei professori sarebbero a tutti gli effetti contratti di diritto privato, soggetti pertanto alla contrattazione nazionale e (spero soprattutto) decentrata. L’uscita dalla pubblica amministrazione consentirebbe anche, quando si vuole assumere un professore, di mettere un semplice annuncio sui quotidiani internazionali, e vedere chi si presenta. Assumere un professore non è come assumere un dirigente di un ufficio tecnico comunale: il primo deve operare in un contesto competitivo e di mercato, il secondo no.
- La gestione economico-finanziaria degli atenei (e dei dipartimenti) sarebbe completamente flessibilizzata, e libera di perseguire le proprie finalità (produrre ricerca e didattica di qualità, in un contesto concorrenziale) senza sottostare agli stessi vincoli ai quali è – giustamente – tenuto un comune quando deve iscrivere a bilancio una posta particolare. Il controllo della Corte dei Conti rimarrebbe, in quanto – in questa visione – l’università continua ad essere destinataria di finanziamenti pubblici. Ovviamente però, al fine di allineare gli incentivi e non provocare maggiori distorsioni, l’allocazione delle risorse pubbliche dovrebbe avvenire – sebbene in modo graduale – interamente sulla base di condivisi criteri qualitativi sui due output del sistema: ricerca e didattica.
- Verrebbero in un colpo spazzati via tutte quelle decine di vincoli assurdi che, in quanto applicati a tutta la pubblica amministrazione, attualmente ingessano la gestione ordinaria. I colleghi ricorderanno il caso delle missioni, qualche anno fa. Volendole limitare per sindaci, assessori o dirigenti ministeriali, si impedì anche ai professori di andare a presentare i propri lavori in giro per convegni. E così vale per decine di altri inutili vincoli. Che, di nuovo, possono aver senso in un ente locale (e personalmente ne dubito), ma non in un’istituzione di mercato che compete a livello mondiale.
Il discorso andrebbe approfondito, ovviamente. E la transizione può essere opportunamente disegnata e graduata. Ma forse è arrivato il momento di affrontare il tema. Perché molti di noi non si rassegnano a stare tra Scilla e Cariddi. E sono convinti che l’università italiana non sia né da dilaniare, né da risucchiare. Forse semplicemente, da ricostruire. Se lo si può fare insieme, e senza furore ideologico in un senso o in un altro, è meglio.
* Le opinioni espresse in questo articolo sono strettamente personali.
Ma riformare invece il diritto amministrativo e togliere “da lì” le varie stupidaggini che lo contraddistinguono? Non ne gioverebbe il paese intero?
Naturalmente questa cosa non esclude la “privatizzazione formale” dell’Università, ma, ricordiamolo, a Berkeley vale ancora (e vorrei ben vedere!) il concetto di “tenure”, così come vale a Stanford e, e.g., CUNY e UW. Ci si domanda solo perché questa riforma (del diritto amministrativo) non debba essere prioritaria.
Rimane poi il problema di definire la natura dei vari “mercati” e se e quando, le regole interne agli stessi (e ce ne sono) siano ottimali per un ruolo dell’Accademia e della Ricerca in una società moderna.
So di partire per una tangente qui, ma dato che negli ultimi 35 anni le “regole interne” dei mercati hanno – ahem – funzionato solo in un certo modo, ogni volta che si invocano soluzioni “market-based” sarebbe bene procedere con i piedi di piombo.
Dimenticavo…
In ogni caso, qui *prima* si rifinanzia il sistema (ai livelli pre-2008) e *poi* si può discutere di tutto.
A presto
Marco Antoniotti
La tesi qui presentata in modo articolato richiederebbe una risposta altrettanto articolata.
A livello di commento evidentemente non è né possibile né opportuno dilungarsi troppo. Mi limiterò quindi a poche osservazioni sulle due “stelle polari” e sulla conclusione.
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Stella polare n.1 (allocazione di risorse basata sulla valutazione di ricerca e didattica)
Detta così, chi non potrebbe concordare (a parte i biechi baroni o gli abietti fannulloni) ?
Eppure c’e’ qualcosa che non torna. Prima del problema del *come* allocare le risorse alle università ci sarebbe la domanda su *quale* si vuole che sia la dimensione quantitativa del livello terziario di istruzione pubblica. Ovvero di decidere prima quanto il Paese vuole davvero investire nel futuro. Non servono grandi studi. Bastano pochi numeri. Il numero di università statali in Italia: 66. A fronte di numeri assolutamente confrontabili per i paesi europei più vicini come popolazione e con cui vorremmo confrontarci (Francia con 74 e Germania con una settantina escludendo le Fachhochschulen ). Inoltre, a differenza di Francia a Germania, in Italia abbiamo la piu’ bassa percentuale a livello OCSE in numero di laureati ogni 100 abitanti. Questo vuol dire che occorre prevedere di avere abbastanza università per poter soddisfare una richiesta di formazione che deve assolutamente crescere per poter restare competitivi col resto del mondo (o il mercato non vale anche su questo punto ?). E per questo compito il numero di università statali esistenti è adeguato. Non sovradimensionato. Che ci siano meccanismo premiali va benissimo. Ma i premi devono essere veri premi, non l’ assenza del castigo. Il problema con i sistemi di valutazione attuali è che sono funzionali unicamente ad un sistema di tagli e contrazione travestito da (falso) sistema premiale. Finché non cambia qualcosa di questa impostazione la stella polare n.1 porta nel baratro il Paese.
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Stella polare n.2 (l’ Università e il mercato).
Potremmo disquisire a lungo su una questione puramente ideologica. Ma se le nebbie dell’ ideologia si diradassero, uno scorgerebbe una realtà abbastanza diversa da certe vulgate proposte acriticamente all’ opinione pubblica italiana. Forse che in Francia non c’e’ competizione tra le università ? certamente! ma non nel modo caricaturale con cui si presenta il miracoloso “mercato” qui da noi. La scelta ? Forse non e’ un caso che in Francia il diritto allo studio non è solo un nome. Se mancano le risorse il mercato serve solo a dare un alibi a spendere ancora di meno.
La conclusione.
Non si capisce perché la priorità per far diventare competitivo un sistema con risorse scarse e ridicole rispetto ai nostri più diretti concorrenti (sul Mercato) sarebbe quello di modificare le regole in modo avventuroso, invece di far funzionare meglio quelle attuali (che potrebbero essere usate in modo assolutamente differente).
Fondazioni a capitale pubblico ? Ma per favore! non stiam parlando del Regno Unito. Che esempi abbiamo davanti in questo Paese ? Le fondazioni bancarie forse ? E’ proprio un esempio lminoso ? Le partecipate pubbliche ? E questo dovrebbe garantire che, senza l’ obbligo dei concorsi avremo il meglio delle forze accademiche mondiali ?
E se invece si cominciasse a far funzionare per davvero quella legge sull’ Autonomia Universitaria che da un po’ di Governi viene sistematicamente vanificata ? Se c’era un modo per evitare di passare per MEPA (risparmiando) anche per acquisti legati alle attività di ricerca, perché è stato annullato ? Usando la Legge Ruberti safebbe possibile ritagliare regole diverse da quelle della PA per l’ Università e permettere di andare all’ estero con regole meno bizantine di quelle attuali.
E infine, se prima che dalla PA si fuoriuscisse dal Controllo Centralizzato di quel club di apprendisti stregoni del Polit-ANVUR-buro ?