Nel suo discorso conclusivo alla “Leopolda”, la scorsa settimana, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha espresso la convinzione che chi si “aggrappa” all’art. 18 è fuori del tempo, più o meno come chi volesse introdurre un gettone nell’iPhone per telefonare. Non avendo avuto occasione di incontrare nessuno che abbia in una mano un iPhone e nell’altra un gettone non siamo in grado di immaginare quale trauma possa essere all’origine di un simile comportamento. Siamo invece in grado di immaginare cosa possa portare a dubitare che “mollando” l’art. 18 si rimuova effettivamente un serio ostacolo alla “modernizzazione” del mercato del lavoro e si moltiplichino così le sue capacità di creare occupazione e, soprattutto, occupazione di buona qualità.
Siamo in grado di farlo perché abbiamo rivolto direttamente ai dati la saggia domanda che Renzi si è posto, sempre alla “Leopolda”: “In questi anni, abbiamo discusso di che cosa sta dietro al mondo del lavoro o ci siamo limitati a un dibattito ideologico?”. I dati hanno risposto e quel che dicono appare molto interessante per decidere se l’art. 18 sta al futuro come il gettone sta all’Iphone, cioè se non c’entri nulla.
Il nostro esercizio è consistito nell’esaminare le traiettorie di carriera individuali utilizzando i dati amministrativi dell’INPS. Il periodo al quale ci riferiamo è il quinquennio 2003-2008. Si tratta di un periodo interessante, non soltanto perché il mercato del lavoro non era “disturbato” nel suo funzionamento dalla crisi economica, ma soprattutto perché molte delle idee sulle riforme da attuare si sono formate o rafforzate in quel periodo; dunque, esse presupponevano specifiche “disfunzioni” meritevoli di correzione che dovrebbero emergere dai nostri dati. Va aggiunto, comunque, che se ci riferissimo agli anni ’90 le conclusioni non cambierebbero di molto.
La matrice di transizione in tabella 1 mostra lo stato lavorativo nel 2008 di chi era occupato nel 2003. Osserviamo in primo luogo che la quota di lavoratori a tempo indeterminato che è rimasta in tale stato, al termine del quinquennio, è del 78%, quindi abbondantemente inferiore al 100%. Il 13,7% di coloro che erano titolari di un contratto a tempo indeterminato, non pochi di certo, dopo 5 anni risultava inattiva o disoccupata.
Tab. 1: Destinazione nel 2008 della popolazione attiva nel 2003

N.B.: Fra i dipendenti a tempo indeterminato sono inclusi gli apprendisti e i dipendenti pubblici. I dipendenti a termine si riferiscono al solo settore privato. Dall’analisi si esclude chi si pensiona nel periodo 2003-2008. Fonte: elaborazioni su dati AD-SILC
Ad ogni modo, è abbastanza elevata la frequenza dei passaggi da un contratto a termine a un contratto a tempo indeterminato (64%); anche fra i dipendenti a termine si osservano, però, frequenti passaggi verso l’inattività/disoccupazione (il 15,3%). Molto più limitate appaiono, invece, le prospettive di stabilizzazione dei parasubordinati (fra cui sono incluse le partite IVA): fra gli attivi nel 2003 solo il 35,4% aveva un contratto da dipendente dopo 5 anni, mentre il 28% era ancora nella Gestione Separata ed il 26% risultava inattivo o disoccupato.
La sola fotografia a 5 anni di distanza non fornisce, però, l’effettivo quadro delle dinamiche seguite dai lavoratori nel corso del quinquennio, dato che le transizioni fra stati più o meno vantaggiosi possono essere molto frequenti oltre che di breve durata. Se si guarda alla quota di lavoratori che nel periodo 2004-2008 ha sperimentato almeno un episodio di peggioramento o miglioramento della tipologia contrattuale, la mobilità risulta ancora più accentuata (tabella 2). Ad esempio, circa 1/3 di coloro che nel 2003 lavoravano con un contratto a tempo indeterminato ha sperimentato nei 5 anni successivi almeno un episodio negativo, muovendo verso un contratto a termine o da parasubordinato oppure andando in disoccupazione o Cassa integrazione a 0 ore oppure ancora, ed il caso è stato molto frequente, uscendo dalle forze di lavoro.
Tab. 2: Quota di lavoratori che sperimenta peggioramenti o miglioramenti della tipologia contrattuale nel periodo 2004-2008, per tipologia contrattuale a fine 2003

Tab. 2: Quota di lavoratori che sperimenta peggioramenti o miglioramenti della tipologia contrattuale nel periodo 2004-2008, per tipologia contrattuale a fine 2003
Il rischio di downgrade dei lavoratori a tempo indeterminato non dipende, peraltro, in modo esclusivo dalla dimensione dell’impresa. Certamente i rischi di maggiore mortalità delle piccole imprese giocano un ruolo importante, ma non si nota un chiaro effetto della soglia dei 15 dipendenti sul rischio di downgrade; infatti, quest’ultimo è presente anche nelle imprese medio-grandi. Inoltre, anche la quota di atipici che viene stabilizzata non sembra risentire di quell’effetto-soglia. Pertanto, l’art. 18 non sembra marcare un chiaro discrimine tra carriere protette e carriere rischiose.
Riguardo ai “successi” per chi proviene da contratti atipici, è elevata, nel quinquennio, la frequenza di transiti verso contratti a tempo indeterminato per i titolari di contratti a termine (poco meno del 75%), mentre, seppur minoritaria, non è irrilevante la quota di parasubordinati che nei 5 anni di osservazione inizia a lavorare da dipendente (44%). Tuttavia, molti dei miglioramenti contrattuali sono solo di breve durata, e ciò vale anche per i laureati (figura 1). Fra gli attivi nel 2003, il 22% dei dipendenti a termine che hanno sperimentato un upgrade contrattuale entro la fine del 2008 è nuovamente scivolato verso uno contratto peggiore. E la volatilità dei miglioramenti di stato è ancora maggiore fra i parasubordinati, dato che il 43% di chi nel quinquennio ha ottenuto almeno una volta un contratto a tempo indeterminato è tornato poi a lavorare da parasubordinato o è finito tra i disoccupati/inattivi.
Fig. 1: Quota di dipendenti privati a termine e di parasubordinati nel 2003 che nel periodo 2004-2008 passa al tempo indeterminato e poi torna in stati contrattuali “peggiori”.
L’aspetto più evidente è che molte delle traiettorie seguite dagli individui nella loro carriera, e anche nella sua fase iniziale, sono non lineari e spesso ben distanti dalla semplice dinamica “temporaneo all’ingresso e dopo poco per sempre permanente”. Dipendenti a termine e parasubordinati sono sicuramente più vulnerabili (anche a causa delle minori retribuzioni), ma, più in generale, gran parte dei lavoratori, indipendentemente dalla tipologia contrattuale,dal settore e dalla dimensione d’impresa, appare vulnerabile nel medio periodo. In altri termini, la mobilità fra stati contrattuali e lavorativi riguarda sì in misura maggiore chi lavora con contratti atipici, ma anche molti di coloro che dispongono di un contratto a tempo indeterminato, appaiono esposti a notevoli rischi di downgrade occupazionale e contrattuale. E’ importante anche sottolineare che questi rischi non sono per nulla minori di quelli che si registrano negli altri paesi europei, come risulta da fonti di dati comparabili (figura 2).
Fig. 2: Quota di dipendenti a tempo indeterminato nel 2005 che nel 2007 risultavano impiegati con contratti atipici o disoccupati
Questi dati descrivono un mercato del lavoro che sembra piuttosto diverso dalle rappresentazioni che normalmente ne vengono date e che enfatizzano la sua rigidità. D’altro canto, anche in base all’indice di Employment Protection Legislation elaborato dall’OCSE – come viene chiarito nella scheda di Eleonora Romano – il nostro mercato del lavoro non risulta essere caratterizzato da norme eccessivamente rigide che, garantendo il “posto fisso” alle generazioni più anziane penalizzerebbero, in primo luogo, i giovani.
L’evidenza empirica non sembra provare l’esistenza di un apartheid messo in atto dagli insider (gli anziani) per penalizzare gli outsider (i giovani) e porta, piuttosto, a dubitare che il mercato del lavoro italiano sia non tanto rigido o anche soltanto segmentato quanto, piuttosto, “liquido”: molti lavoratori – soprattutto i più giovani, ma non solo – fluttuano tra stati lavorativi alternando periodi con contratti standard a periodi di atipicità (con minori salari e tutele di welfare) o anche di intermittenza occupazionale, che generalmente non trova il conforto di adeguati ammortizzatori sociali.
La generica contrapposizione tra rigidità e flessibilità non è, dunque, di grande aiuto per individuare gli interventi più efficaci da adottare. Di certo, limitare la varietà contrattuale appare indispensabile per ridurre le disuguaglianze e limitare gli aspetti negativi della flessibilità. Ma questi obiettivi dovrebbero essere raggiunti partendo dal basso, cioè eliminando le forme contrattuali maggiormente penalizzanti e meno protette, invece che dall’alto, cioè indebolendo il contratto a tempo indeterminato, visto che questo indebolimento non è di certo l’unico modo per eliminare le disparità e, oltre tutto, tenuto conto che anche nella sua forma attuale quel contratto non costituisce affatto un ostacolo alla mobilità dei lavoratori.
In conclusione, cercando di capire “cosa c’è dietro al mondo del lavoro” si scopre, tra l’altro, che il contratto a tempo indeterminato anche in vigenza dell’art. 18 non equivale al “posto fisso”. Si può allora concordare con Renzi che “il posto fisso non esiste più”, ma il punto è che non esiste più anche con l’art. 18 e, dunque, proporsi di combinare questa forma di tutela con la modernizzazione del mercato del lavoro non equivale a cercare di mettere il gettone nell’iPhone.