Il rischio di fuga dei migliori verso il mercato è una delle principali argomentazioni utilizzate nel nostro paese (come in altri) contro l’introduzione di tetti alle retribuzioni dei manager pubblici. In questo articolo, vorrei indicare alcune ragioni per cui questo rischio non dovrebbe preoccuparci troppo.
Innanzitutto, una rapida considerazione preliminare: affermare, con certezza, che i manager pubblici oggi beneficiari di remunerazioni elevate siano i migliori è semplicemente impossibile, data l’opacità dei processi di selezione. Un processo di valutazione trasparente e competitivo è infatti essenziale alla individuazione dei migliori, ma le modalità di selezione dei manager nel nostro paese hanno ben altre caratteristiche.
Il punto di fondo è un altro e concerne l’opportunità di prendere il mercato come termine di riferimento anche per il settore pubblico. Due sono gli aspetti critici sui quali vorrei portare l’attenzione.
Il primo aspetto critico concerne la definizione di migliore. A un manager pubblico sono richieste le stesse qualità di un manager privato? Naturalmente, il mercato può premiare diverse abilità dei manager. Tuttavia, soprattutto nel capitalismo finanziario contemporaneo dove l’attenzione dominante è ai saldi monetari, l’abilità più apprezzata del manager consiste nel rendere massimi i ricavi minimi i costi. Non importa se la conseguenza sono lavoratori con stipendi da povertà, con contratti intermittenti e condizioni di lavoro usuranti o se i “clienti” più difficili da assistere sono abbandonati e i costi esterni ignorati, scaricando su altri dosi eccessive di rischio o non prestando alcuna attenzione alla vita delle comunità locali. Se i manager pubblici avessero queste “qualità”, la migrazione di qualcuno di essi verso il mercato non sarebbe necessariamente disdicevole. Infatti, si potrebbe fare spazio all’entrata di soggetti che, pur – ovviamente – non indifferenti al trattamento retributivo, sono disponibili a guadagnare un po’ meno che nel mercato in cambio della possibilità di realizzare anche altri obiettivi e principalmente quelli di rilevanza sociale che dovrebbero caratterizzare il servizio pubblico. Questi obiettivi sono, a mio parere, una delle ragioni principali a favore della produzione pubblica.
In ogni caso, indipendentemente dalla questione delle motivazioni dei manager, dobbiamo chiederci – e questo è il secondo aspetto critico – se possiamo considerare accettabili i divari oggi esistenti nelle retribuzioni fissate in sede di mercato. L’assunto diffuso è che tali divari siano giustificati in quanto rappresentano la ricompensa per le differenze nelle abilità e nello sforzo. Il che soddisfarebbe sia il principio di efficienza, incentivando lo sforzo, sia quello di giustizia nella prospettiva meritocratica, abilità e sforzo corrispondendo a null’altro se non al merito.
Il punto è che per realizzare efficienza e meritocrazia non basta un qualsiasi mercato. Servono mercati coerentemente strutturati. Serve, altresì, una meritocrazia sostanziale in cui l’accesso alle posizioni più vantaggiose non sia condizionato dalla scarsità sociale che è una conseguenza della violazione delle uguali opportunità di mobilità. Altrimenti, il rischio è la creazione di mere rendite che, essendo pagamenti in eccesso a quanto richiesto per assicurarsi l’erogazione delle abilità e dello sforzo, non solo presentano diversi aspetti di ingiustizia sotto il profilo meritocratico, ma sono anche del tutto inefficaci come stimolo all’efficienza. Alla rendita, infatti, non corrisponde produzione di valore ma, semplicemente, maggiore capacità, da parte di alcuni, di appropriarsi del valore complessivo, a scapito di altri. Limitare le rendite dunque non confliggerebbe con l’efficienza; al contrario, potrebbe favorirla, se gli sforzi precedentemente indirizzati all’acquisizione di rendite fossero rivolti alla produzione di valore.
Invocare mercati coerentemente strutturati non implica certo invocare condizioni ideali e irrealistiche di concorrenza perfetta. Ciò che viene richiesto è, semplicemente, la presenza di mercati dove la libertà di entrata, condizione essenziale all’erosione delle rendite, è il più possibile soddisfatta e in cui l’esercizio di potere da parte dei soggetti più forti è minimizzato anche grazie ad un disegno appropriato della governance dell’impresa.
Le valutazioni dovrebbero ovviamente essere più approfondite, ma possiamo pensare che differenze di remunerazioni che si avvicinano anche a 800 volte riflettano, davvero, differenze in abilità e sforzo? Se fosse così, per fare un esempio, bisognerebbe concludere che è bravissimo l’amministratore delegato tipico di una catena di fast food americano, il quale guadagna in un giorno quasi il doppio del reddito annuale dei propri dipendenti, mentre è molto meno bravo Rogers, uno dei più grandi architetti del mondo, il quale ha stabilito che nel suo studio la retribuzione del più pagato (egli stesso) possa essere al massimo uguale a 8 volte quella del meno pagato. E’ difficile accettare questa conclusione.
In realtà, dietro le alte remunerazioni dei manager privati (come di molti top-income), troviamo molto spesso elevate barriere all’entrata (sia nel gruppo ristretto dei top manager globali sia nei mercati in cui essi prestano le loro attività, il che permette la persistenza di alti profitti da cui estrarre elevate remunerazioni). Le tante azioni di antitrust in corso contro Apple sembrano, ad esempio, dimostrare che le barriere all’entrata abbiano giocato un ruolo non irrilevante anche per il successo di quel “gioiello” di impresa innovativa. Inoltre, è ben poco regolamentata la possibilità di appropriarsi di benefici a prescindere dai costi che si pongono a carico della società e, d’altro canto, il potere dei manager spesso si esercita in un contesto di strutture deboli di governance delle imprese e di forte diminuzione della “voce” dei lavoratori. Vi è, altresì, un costante lavorio sulla politica e sull’opinione pubblica affinché vengano introdotte o confermate norme favorevoli al radicamento delle disuguaglianze. Ad esempio, come sostengono Alvaredo et al. in un numero recente del Journal of Economic Perspectives, le pressioni esercitate dai top income a favore della riduzione della pressione fiscale sui redditi più elevati avrebbero avuto non soltanto l’effetto di aumentare i redditi netti dei manager a parità di redditi lordi, ma anche quello di far crescere questi ultimi per l’effetto di rafforzamento del potere di contrattazione dei manager indotto proprio dalla minore tassazione.
Inoltre, alcuni manager, ad esempio quelli finanziari, hanno beneficiato anche del diffondersi delle indivisibilità connesse alle nuove tecnologie. In un mercato globale, il semplice atto di schiacciare un ordine di vendita o di acquisto può permettere entrate strabilianti. La competenza del manager è certamente influente, ma senza la tecnologia non sarebbero possibili entrate stratosferiche. È il quantum che suscita perplessità.
In realtà, le critiche potrebbero essere ancora più severe. Ad esempio, anche qualora i fenomeni appena rilevati fossero circoscritti e le alte remunerazioni derivassero unicamente dalla domanda per le prestazioni offerte, incontrare i gusti altrui non include, forse, un elemento di puro per il quale non si dovrebbe essere premiati? Le ragioni di una posizione critica si fanno ancora più forti se consideriamo le possibili conseguenze negative delle disuguaglianze estreme, da quelle sul funzionamento della democrazia a quelle sulla insufficienza della domanda aggregata.
Anche a prescindere da queste ultime critiche, le osservazioni esposte in precedenza sembrano tuttavia sufficienti per gettare più di un dubbio sulla desiderabilità di pratiche di remunerazione dei manager pubblici che, in ossequio alla retorica liberista, si fanno belle di mimare i comportamenti di mercato. Se si seguisse questa strada, si rischierebbe di estendere al pubblico il parassitismo che caratterizza molti mercati odierni, in quanto dispensatori di rendite. Questo rischio è opposto a quello di cui si è parlato nel dibattito sul caso Moretti e cioè che l’eventuale taglio degli stipendi dei manager pubblici farebbe apparire questi ultimi come parassiti. Non dimentichiamo, peraltro, che nel settore pubblico, in Italia, le disuguaglianze primarie sono molto cresciute negli ultimi anni, molto di più che nel privato.
Prima di concludere, tre brevi precisazioni. Primo: essere a favore dei tetti nel settore pubblico non implica necessariamente esserlo anche nel mercato. Ad esempio, nel mercato potrebbe essere giustificata la tutela del diritto degli azionisti (ammesso, però, che essi abbiano “voce” in queste decisioni, come oggi non è) a pagare quanto vogliono i propri manager. Nel caso delle imprese pubbliche, il problema non si pone perché l’azionista coincide con lo stato.
Secondo: fissare tetti non implica ignorare il merito. Come già ricordava von Mises, esistono modi diversi per remunerare quest’ultimo; uno di essi è un sistema meritocratico di progressione, anche economica, nella carriera.
Terzo: se persistesse il timore di una remunerazione inadeguata dei meriti e, con essa, di disincentivazione allo sforzo, si potrebbero disegnare le retribuzioni in modo che una parte di esse abbia carattere incentivante pur nel rispetto sostanziale del tetto complessivo.