Tra le tante conseguenze che la crisi finanziaria e dei debiti sovrani dell’area Euro produce, una delle più sintomatiche è rappresentata dalla perdita di consistenza dei diritti sociali quali diritti individuali. Questo fenomeno, che è ad un tempo economico e politico, è dovuto alle forti asimmetrie tra i sistemi economici nazionali prodotte dalla trasmissione della politica monetaria, dagli effetti finanziari delle politiche statali di correzione fiscale sul riequilibrio delle bilance commerciale e finanziaria intracomunitarie e dal funzionamento del mercato unico. Infatti, la deriva asimmetrica degli effetti della politica monetaria (europea) e delle politiche di finanza pubblica (statali), in un contesto di mercato unico genera gravi disfunzioni strutturali anche nella resa delle prestazioni sociali. Il lavoro e i diritti sociali cessano, allora, di essere considerati come una questione di pertinenza dei diritti di cittadinanza e di garanzia dei diritti individuali per essere, piuttosto, trattati come un problema di mera mobilitazione dei fattori produttivi, al fine di contrastare gli squilibri finanziari in atto. E’ come se i governi e le istituzioni dell’Unione europea e finanziarie internazionali perdessero di vista il valore dei diritti sociali quali strumenti di protezione individuale della persona, per considerarli soltanto sotto il profilo finanziario, quale strumento di mobilitazione di risorse, di riequilibrio della bilancia dei pagamenti, di correzione fiscale mediante il taglio della spesa.
Nell’intrecciato contesto di relazioni sistemiche tra moneta e mercato, da un lato, e bilanci pubblici e debiti sovrani, dall’altro, i tentativi di riequilibrio macroeconomico dell’area Euro producono, infatti, diseguaglianze lungo l’asse dei confini nazionali tra Paesi in surplus e Paesi in deficit anche nella garanzia delle prestazioni al servizio dei diritti sociali, laddove il costo del lavoro, i tassi di occupazione e disoccupazione, la redistribuzione di ricchezza a mezzo dei diritti sociali vengano assunti quali fattori di riequilibrio sistemico nella correzione degli sbilanci commerciali e, di conseguenza, finanziari tra i Paesi membri.
La perdita di prospettiva della considerazione dei diritti quali strumenti di promozione dell’eguaglianza e di protezione degli individui in difficoltà per via dell’approccio culturale qui denunciato fa scivolare, così, in secondo piano anche il tema della parità di chances tra i cittadini dell’Unione europea a prescindere dallo Stato di residenza (o addirittura di cittadinanza). Il finanziamento dei diritti sociali, per gli effetti esercitati in termini di riequilibrio macroeconomico dell’area Euro, tanto sul piano della bilancia commerciale che sul piano dell’equilibrio finanziario, rischia infatti di generare automatici fenomeni di diseguaglianza nel livello di garanzia delle prestazioni tra i diversi Stati membri.
Questo è uno dei paradossi dell’Euro, quello per cui, al fine del riequilibrio del sistema commerciale e finanziario, gli Stati in surplus – quelli tendenzialmente più ricchi e con tassi di disoccupazione più bassi – dovrebbero espandere la spesa sociale per sostenere la domanda interna, mentre quelli in deficit – come tali più bisognosi di correggere le conseguenze della crisi economica e dell’alto tasso di disoccupazione sui diritti delle persone – dovrebbero provvedere a contrarla. Ammesso, poi, che la spesa sociale offra una spinta ai consumi selettiva, tale cioè da riequilibrare nel senso sperato il rapporto tra domanda interna e saldo tra importazioni ed esportazioni. Comunque perdendo di vista la tutela degli individui come persone, esito al quale conduce la mera considerazione delle prestazioni sociali quale leva finanziaria per riequilibrare le asimmetrie all’interno del mercato unico.
Il contesto è prodotto dai limiti degli strumenti di politica economica e finanziaria a disposizione dei singoli Stati dell’area Euro per poter compensare gli squilibri strutturali nelle bilance commerciale e finanziaria nei loro reciproci rapporti, vista la comunanza territoriale del mercato e la contemporanea disarticolazione delle politiche economiche e di bilancio, tuttora relegate alla responsabilità dei singoli Stati membri. Ciascuno di essi, infatti, è individualmente responsabile per le proprie politiche fiscali ed il proprio debito pubblico. Come è noto la politica monetaria, quale strumento di politica economica, è neutralizzata dai Trattati, in quanto funzione della sola stabilità dei prezzi. Al fine di interferire deliberatamente sull’equilibrio finanziario tra le diverse aree dei mercati del debito, delimitate lungo i confini statali, in un regime in cui la moneta unica ha eliminato dallo spettro delle politiche pubbliche – e anche dalla prospettiva dei riallineamenti automatici operati dai mercati stessi – anche lo strumento delle fluttuazioni dei cambi, restano quindi soltanto le c.d. politiche di aggiustamento fiscale indipendenti di ciascuno degli Stati membri.
Se il riequilibrio non avviene ad opera di sbilanci commerciali equivalenti e contrari rispetto agli sbilanci finanziari, compensando quantità di moneta in entrata ed uscita con equivalenti quantità di merci nella direzione opposta, le economie nazionali possono operare esclusivamente movimentando le fluttuazioni dei prezzi e dei salari, manovrando il sistema produttivo interno mediante la politica fiscale, il costo e la produttività del lavoro e, appunto, la spesa sociale. Ma tutto ciò a prescindere dai vicoli normativi posti dalle Costituzioni statali a difesa dei diritti sociali fondamentali e dell’eguaglianza sostanziale. Ed il lavoro stesso, nel senso del diritto al lavoro, cessa in parte di essere visto quale strumento di promozione della dignità sociale della persona per essere considerato quasi esclusivamente, e per di più sotto il profilo macroeconomico, quale fattore della produzione, di cui valutare soltanto il costo e la più adeguata allocazione. Dove il lavoro manca, il relativo costo deve allora calare, e così le garanzie normative dei lavoratori stessi. Dove mancasse invece la manodopera, sono i lavoratori a doversi spostare da altri Paesi dell’area del mercato comune, anche per attivare un “virtuoso” meccanismo al ribasso al fine di contenere il livello dei salari. I disoccupati in cerca di lavoro disposti ad emigrare sono sicuramente disponibili anche ad accettare un salario più basso dei lavoratori già residenti, come il recente referendum svizzero non ha mancato di farci comprendere.
Attraverso scelte di politica economica è, quindi, astrattamente possibile generare forme di pressione sui mercati aumentando le esportazioni e contenendo le importazioni sì da garantire, in un contesto competitivo tra Stati, reciproci vantaggi e svantaggi anche sul fronte dell’equilibrio finanziario. E per tali obiettivi i diritti sociali diventano strumenti di politica economica piuttosto che proiezione nel sistema giuridico ed economico dei bisogni e delle aspirazioni di cittadini in vista di una maggiore eguaglianza e giustizia sociale. Questo è conseguenza della necessità di maggiore equilibrio nella bilancia dei pagamenti nei rapporti tra gli Stati, per impedire il consolidarsi di fenomeni permanenti di squilibrio in surplus e, reciprocamente, in deficit, tali da determinare derive di instabilità finanziaria. Insomma, la colpa pare essere dei diritti sociali. O almeno si propaganda ora come necessario il loro sacrificio.
Questa impostazione dell’analisi consente di concludere rivelando che il principale difetto strutturale della moneta unica e della disciplina dell’Euro – in un contesto di mercato unico ma che tuttora separa lungo i confini territoriali e le responsabilità politiche dei singoli Stati membri i sistemi finanziari, le politiche fiscali ed i titoli dei debiti sovrani di ciascuno di essi –risieda proprio nelle asimmetrie generate dalla politica monetaria.
Perché, in effetti, anche l’accumulo di squilibri in eccesso sul saldo estero di alcuni Stati membri determina conseguenze di sistema negative generando, infatti, una costante pressione deflattiva sull’intera eurozona ed aggravando la situazione dei Paesi che, trovandosi in costante deficit nella bilancia dei pagamenti, hanno una maggiore difficoltà a far riprendere la crescita economica.
Per ritornare, così, alla questione di fondo, alla circostanza per cui questi processi generano fortissime pressioni sui livelli di garanzia delle prestazioni a servizio dei diritti sociali, generando inaccettabili differenze nei tassi di disoccupazione e nel costo del lavoro nelle diverse aree territoriali del mercato unico. Con la conseguenza ulteriore di aggravare, invece di contenere, gli squilibri tra i Paesi in deficit ed i Paesi in surplus, e cronicizzando i differenziali di prezzi e salari. E così mantenendo stabilmente un inaccettabile divario territoriale dei tassi di inflazione reale tra parti e parti del mercato europeo, conseguentemente incrementando le diseguaglianze nella garanzia dei diritti sociali lungo i confini degli Stati membri. Diseguaglianze sociali, insomma, alle quali si aggiungono ora più forti diseguaglianze territoriali nella garanzia dei diritti.