“Dite a un gruppo di uomini d’affari che un paese è come un’impresa, solo più grande, e gli date la soddisfazione di sentire che sanno già le cose fondamentali. Cercate di spiegare loro concetti economici come quello dei costi comparati e vi trovate nella situazione di chi chiede loro di imparare qualche cosa di nuovo”. E’ così che Paul Krugman ha per lungo tempo definito i “pop economisti internazionali”, economisti e uomini politici, che hanno deturpato e semplificato il dibattito sull’economia internazionale, con affermazioni non supportate dal possesso di dati sempre validi e correttamente interpretati.
Oggi, nel dibattito pubblico, la tendenza ad utilizzare il concetto di competitività di un paese senza sapere bene di che si tratti è all’ordine del giorno. Si fa confusione e si tende a semplificare secondo categorie sbagliate, pensando alla competitività del “sistema paese” come a quella di un sistema di imprese.
Quando diciamo che una impresa non è competitiva ci riferiamo alla sua incapacità di reggere la propria attività economica alla prova del mercato, il che prelude ad una sua certa scomparsa. I paesi possono conseguire risultati economici anche disastrosi, ma non per questo scompaiono dalla scena mondiale. Di conseguenza questa tendenza ad usare (abusare) del concetto di competitività di un paese equiparandolo al concetto utilizzato per descrivere la competitività di un’impresa è profondamente sbagliato, mentre la nozione di competitività nazionale è sfuggente. E’ certamente legata alla produttività interna, che determina il volume di prodotti esportabili a buone condizioni di mercato. E’ senz’altro fortemente influenzabile dal miglioramento o peggioramento delle ragioni di scambio di un paese nei confronti di un altro.
Il primo aspetto ci rivela evidentemente ed intuitivamente che, sebbene il commercio mondiale è notevolmente esteso, il tenore di vita nazionale è determinato in misura preponderante da fattori interni piuttosto che da competizioni che avvengono sui mercati mondiali. Ma ci verrebbe naturale domandarci come sia possibile la sussistenza di questa affermazione dato che sembrerebbe che ci muoviamo sempre più verso un mondo globalizzato e quindi interdipendente?
Una parte della risposta è che il mondo non è così interdipendente così come si è diffuso nella percezione collettiva creata dal mito della globalizzazione. La nascita della Comunità Europea è avvenuta proprio con lo scopo di pervenire alla creazione di un grande mercato comune, di una grande area di libero scambio permeabile a rischi provenienti da possibili fluttuazioni dell’economia americana, mentre ancora oggi la quota di esportazioni americane sul valore aggiunto totale nazionale rappresentano soltanto il 10% circa.
Questo ci porta ad una conclusione e cioè che i più grandi paesi del mondo non sono in competizione economica fra loro in misura così determinante per la sopravvivenza delle proprie economie.
Diverso è affermare che Paesi che crescono più rapidamente accrescano il loro status di potere a livello mondiale. Ma affermare per esempio che la crescita economica cinese minaccia il peso dello strapotere americano sugli equilibri geopolitici mondiali è cosa ben diversa dal credere che la crescita economica della Cina sia in grado di influire negativamente sul tenore di vita degli Stati Uniti o dell’Europa.
Il tasso di crescita del tenore di vita, infatti, eguaglia essenzialmente il tasso di crescita della produttività interna e non la crescita della produttività relativamente ai paesi concorrenti. Durante il periodo dal 1973 al 1990, l’economia americana aveva incontrato un periodo di stagnazione del tenore di vita e la quasi totalità della diminuzione era spiegata dal declino della crescita della produttività interna, piuttosto che dal declino del “Pil di comandato”.<!–[if !supportFootnotes]–>[1]<!–[endif]–> Per cui anche se il commercio mondiale è molto esteso, il tenore di vita nazionale è determinato in misura preponderante da fattori interni piuttosto che da competizioni sui mercati mondiali. Questo ci porta ad un’altra conclusione e cioè che il commercio internazionale non è un gioco a somma zero e che la retorica della competizione mondiale rischia di essere una “ossessione” ed una strumentale retorica nelle mani di politici e di “pop economisti internazionali”.
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<!–[if !supportFootnotes]–>[1]<!–[endif]–> Negli Stati Uniti il Commerce Department pubblica, oltre al Pil reale, il cosiddetto “Pil comandato”. Questo è simile al Pil reale salvo che in esso le esportazioni sono divise non per l’indice dei prezzi delle esportazioni ma per l’indice dei prezzi delle importazioni. Il altre parole, le esportazioni sono valutate in base a ciò che gli americani possono acquistare con il denaro ricavato dalle esportazioni. Il Pil comandato misura dunque il volume dei beni e dei servizi che l’economia statunitense può “comandare” – il potere d’acquisto del paese – invece del volume che produce.