La sostenibilità ambientale chiama tutti i paesi a scelte urgenti e difficili e impone di fare i conti con i costi che la transizione ecologica determina nell’immediato anche, e forse soprattutto, a carico dei lavoratori, in particolare quelli occupati nelle industrie da ridimensionare. Questi costi, peraltro, vengono spesso utilizzati per acquisire consenso politico, naturalmente a spese del futuro nostro e delle generazioni che verranno.
In Australia l’opposizione al governo laburista aveva già ampiamente cavalcato il tema dei costi della sostenibilità ambientale, soprattutto in termini di posti di lavoro a rischio, già nelle prime fasi della crisi finanziaria iniziata alla fine del 2007. Più di recente, il governo conservatore, salito al potere nel settembre del 2013, ha preso una posizione molto netta: l’Australia non sopporterà alcun costo finanziario o economico – in particolare quello rappresentato dai posti di lavoro nei vecchi settori industriali – per attuare una politica di difesa dell’ambiente e contro il cambiamento climatico.
Forse anche allo scopo di dare più forza a questa scelta, nel dibattito politico australiano risuona spesso la tesi, del tutto priva di fondamento, secondo cui il cambiamento climatico non sarebbe causato dall’uomo, con le sue attività di produzione e i suoi stili di vita. In realtà queste attività e questi stili di vita hanno enormi responsabilità e, d’altro canto, il problema del trade-off tra sostenibilità ambientale e costi economici, soprattutto in termini di lavoro, è un problema serio che merita di essere ampiamente discusso anche la di fuori del rarefatto mondo accademico.
Mentre l’Australia coltiva la speranza che poco cambi nel funzionamento delle economie e nel modo di produrre, così da poter rivivere senza cambiamenti il lungo boom economico del decennio precedente il 2007, in altri paesi e, in particolare nella non lontana Cina, la consapevolezza di essere di fronte a un problema che può richiedere una svolta sembra piuttosto diffusa.
Di recente, scrivendo per il Council on Foreign Relations, Beina Xu ha affermato che ormai è riconosciuto che il problema ambientale può davvero mettere in crisi un modello di crescita come quello adottato in Cina negli ultimi 30 anni per realizzare la transizione dal sistema socialista al capitalismo. Dalla Cina oggi proviene il 50% della domanda mondiale di carbone e la Cina produce un terzo dei gas responsabili dell’effetto serra a livello planetario.
I costi ambientali e sociali di una crescita economica del 9% all’anno sono esorbitanti; basti pensare che l’aspettativa di vita nel Nord del paese e’ diminuita di 5,5 anni a causa dell’inquinamento di aria e acqua e che, nel 2008, la distruzione ambientale è costata il 9% del Pil. Anche per questo la protesta cresce e minaccia la stabilità politica del paese. Un episodio significativo è, ad esempio, quello verificatosi nell’ottobre del 2012 a Ningbo, dove il progetto di ampliamento dei locali impianti petroliferi, del valore di $8,9 miliardi, è stato abbandonato per evitare conflitti con migliaia di dimostranti; più recentemente, nel maggio del 2013, a Kunming, nel sud-ovest della Cina, la protesta popolare ha fermato la costruzione di un impianto chimico che avrebbe sfornato prodotti cancerogeni per mezzo milione di tonnellate all’anno.
Ma il problema centrale, nell’immediato, è il trade-off tra lavoro e sostenibilità. Questo trade-off si è palesato anche in Cina, dove una schiera di amministratori e politici della provincia di Hebei ha avanzato proposte ufficiali al governo centrale di Beijing per affrontare la difficile questione dei tagli all’occupazione in alcune delle industrie più inquinanti (ferro, carbone e cemento) che, sfortunatamente, sono anche quelle che trainano l’economia di Hebei.
Episodi di questo tipo mettono in evidenza la necessità di tenere conto delle ripercussioni che una nuova politica in difesa dell’ambiente può avere sulle economie locali, attraverso il suo impatto negativo sull’occupazione nelle industrie tradizionali. Di queste ripercussioni si preoccupano soprattutto coloro che sono i destinatari delle proteste locali, come gli amministratori delle provincie; d’altro canto ciò ha senz’altro a che fare con la politica adottata dal governo centrale cinese nell’ultimo decennio, diretta sostanzialmente a decentrare gran parte delle conseguenze delle politiche pro-ambientali adottate da Beijing. Per questo motivo tali conseguenze sono state sopportate in misura nettamente preponderante dalle lontane provincie del sud-est del paese, dove sono localizzate le industrie manifatturiere, e nell’ovest della Cina, dove si trova il “lavoro marginale” che è ricercato perché favorisce la crescita dei profitti. In breve, l’attuazione di tali politiche è affidata alla responsabilità dei governi locali, la cui variabile determinazione nella difesa del vecchio modello economico piuttosto che delle nuove priorità ambientali può spiegare l’eterogeneità’ dei risultati.
Come si è detto, i segni di insoddisfazione verso un modello che dovrebbe mettere in imbarazzo (o forse spingere alle lacrime) i teorici dello sviluppo non mancano – visto che mentre produce una crescita del Pil del 9%, richiede di impegnare il 9% del Pil per riparare i danni di quella crescita -, ma ci si chiede se il cambiamento di rotta che il governo cinese si propone non sia troppo timido o, comunque, tardivo.D’altro canto, gli ostacoli politici non mancano, come mostra anche l’esperienza di altri paesi.
Secondo uno studio di List e Sturm (Quarterly Journal of Economics, 2006) negli Usa i governatori dei vari stati nel periodo 1970-2000 hanno in generale attuato politiche ambientali diverse da quelle dichiarate in fase elettorale, evidentemente con il mero scopo di attrarre voti. Di fatto, almeno negli Stati Uniti, le spese che hanno la maggiore probabilità di essere manipolate in risposta alla concorrenza politica sono proprio quelle “marginali”, tra le quali rientrano le spese per l’ambiente e la sostenibilità. D’altro canto, è piuttosto preoccupante che la probabilità di rielezione dei governatori che hanno adottato politiche pro-ambientali nel periodo 1970-2000 sia risultata minore rispetto a quella dei loro colleghi che avevano investito in infrastrutture per sostenere la crescita economica.
Tenendo conto di tutto ciò, forse si comprende meglio perché nella strategia della crescita verde, considerata da molti come la risposta all’esigenza di combinare lotta al cambiamento climatico e crescita economica, sia ben presente l’idea che il modo con cui conciliare difesa ambientale e difesa dell’occupazione dipende dalle condizioni “locali” e perciò le politiche devono essere diverse in Etiopia, in Indonesia o in Corea (Yvo de Boer, 2014).
La questione cruciale è però un’altra: che la crescita verde si fondi, a seconda delle condizioni locali, sull’ energia sostenibile, sull’economia creativa o su altre forme di sostenibilità, vi sono dei costi da sopportare nell’immediato e questi costi si misurano soprattutto con una moneta che si chiama lavoro. Nessuna delle strategie proposte o adottate da governi locali o nazionali funzionerà se non avrà al centro il lavoro e i lavoratori.
E’ bene soffermarsi brevemente su questa questione cruciale. Cosa significa mettere al centro del discorso sulla sostenibilità il lavoro? E’ davvero sufficiente, puntare sulla creazione di lavori “moderni” come dice Yvo de Boer? E’ perché allora persiste, talvolta non senza ragione, lo scetticismo di coloro che considerano la crescita sostenibile come una contraddizione perché non ci sarebbe crescita di lungo periodo compatibile con i limiti ambientali (ad esempio André Reichel)?
Per rispondere a questi quesiti è necessario mettere in luce tre aspetti. Il primo, emerso già a Rio de Janeiro nel 2012 in occasione della convenzione internazionale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC), è che la transizione verso una economia sostenibile deve essere equa. Questo punto è stato ribadito di recente da Dan Cunniah, Direttore del Bureau for Workers’ Activities International Labour Office. In genere, parlando di equità, in questo contesto si intende affermare che ai lavoratori deve essere fornita protezione sociale ed economica durante la transizione. Inoltre, l’equità richiede che ai lavoratori sia data, attraverso la formazione e l’acquisizione di nuove qualifiche, l’opportunità di transitare verso nuovi lavori.
Il secondo aspetto è quello della dignità del lavoro, la quale comporta il rifiuto di lavori che non rispettino i diritti fondamentali alla salute, alla sicurezza e alla protezione sociale. Infine, il terzo aspetto è quello dell’ adeguatezza del salario, che non credo necessiti di spiegazioni vista la crescita della massa di working poor in molti paesi (e anche in Italia, come hanno recentemente mostrato Bosco e Casadio).
La raccolta di articoli pubblicata recentemente sull’International Journal of Labour Research (n. 2 del 2012) si conclude con un giudizio che, per quanto parziale, mette in guardia contro il rischio di un eccessivo ottimismo sulla capacità della green economy di assicurare equità e dignità del lavoro. In effetti, è piuttosto evidente, già adesso, non soltanto che l’economia verde non è il nuovo Eldorado per i lavoratori del mondo, ma anche che quando la qualità del lavoro creato nei nuovi settori della economia verde si eleva e si avvicina ad assicurare l’equità e la dignità di cui si è detto, ciò avviene non per qualche segreto automatismo ma, piuttosto, per la consapevole e concertata azione politica dei lavoratori stessi.
In una fase storica in cui le forze di destra e di sinistra, un po’ in tutto il globo, sembrano convergere sull’idea che il mondo del lavoro non ha più bisogno di concertazione e di sindacati questa è una conclusione che dovrebbe far pensare.