A dieci anni dalla sua tardiva approvazione, la l. n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita (pma) ha una storia relativamente breve ma sufficiente a far emergere uno fra i peggiori bilanci per il legislatore italiano. Sottoposta a continui interventi di manutenzione, la legge, all’indomani dell’ultimo intervento caducatorio dalla Corte cost., (sent. n. 162/2014), che consente la fecondazione eterologa, si appresta a subire, per decreto legge, su iniziativa del Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, nuove modifiche e a vedere aggiornate le Linee guida, al fine di adeguare la normativa alla decisione della Corte.
La disciplina appare, dunque, profondamente modificata rispetto a quella originaria approvata da una maggioranza di cui si disse che aveva scelto la via della “legge ideologica” (M. D’Amico). Alla sua approvazione, infatti, la legge 40 presentava divieti, limiti e obblighi per i medici, scienziati e cittadini, che hanno aperto numerosi problemi riguardanti l’autodeterminazione e il diritto alla salute della donna, l’affermazione di una tutela dell’embrione sbilanciata anche rispetto a quanto stabilito nella l. n. 194 del 1978 sull’ivg e, infine, il rapporto tra medico e paziente stretto in uno spazio particolarmente angusto. Non solo: la legge sulla pma ha invertito la tendenza dello Stato ad arretrare di fronte alle decisioni che incidono sulla sfera più intima delle persone, come quelle relative alla sessualità e alla vita familiare. Su questi temi il nostro legislatore, nel corso degli anni settanta e ottanta del Novecento, aveva approvato leggi informate ai principi di autodeterminazione e di laicità dello Stato; così è stato nel 1974, nel 1978 e nel 1984 con le leggi sul divorzio, sull’aborto e sul cambiamento di sesso.
Per queste ragioni, la legge 40 è diventata non solo una fra le leggi più controverse della nostra storia repubblicana, ma anche l’esempio in negativo del difficile rapporto fra etica, scienza e diritto. A fronte, infatti, del complesso bilanciamento fra interessi e diritti, primi fra tutti la libertà di autodeterminarsi e il diritto alla salute, la legge 40 affermava – nella sua versione originaria – due evidenti scelte di principio: la tutela prioritaria dei diritti dell’embrione e la tutela della genitorialità biologica, tesa ad escludere dalla procreazione artificiale le coppie totalmente sterili, le coppie omosessuali e i single. Il complesso rapporto che dovrebbe accompagnare la relazione fra medico e paziente nelle scelte terapeutiche relative alla sfera più intima di una persona e che dovrebbe concludersi con decisioni basate su valutazioni mediche e motivazioni personali sono state, invece, procedimentalizzate dal legislatore del 2004 all’interno di ambiti così stringenti da costituire una minaccia alla salute e alla dignità della donna oltre un’ingiustificata lesione al principio di uguaglianza. Così, nonostante il fallimento del referendum abrogativo del giugno 2005, le parti più qualificanti ma anche più discusse della disciplinahanno portato ad un fitto contezioso da cui sono derivate una serie di pronunce di giudici ordinari e amministrativi, della Corte cost. e della Corte EDU, che hanno colpito le parti più controverse della legge, come l’obbligo di impianto di tre embrioni e il divieto di diagnosi preimpianto degli stessi, che più incidevano sul diritto alla salute della madre e del feto.
Solo di recente è emersa la questione, relativa appunto al divieto di tecniche di inseminazione di tipo eterologo, disposto dall’art. 4, co. 3, della legge. Su tale divieto è intervenuta la Corte cost. con la citata sent. n. 162 del 2014, che ha dichiarato illegittimità dell’articolo, nella parte in cui prevede il divieto alla pma di tipo eterologo, “qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute o irreversibili”. La decisione, al di là delle conseguenze immediate – l’eliminazione del divieto di pma eterologa e delle sanzioni ad esso connesse – appare di grande interesse, soprattutto perché, la Consulta sembra individuare nella motivazione un percorso argomentativo da offrire come “monito” al legislatore per la soluzione delle difficili questioni bioetiche (C. Casonato): essa riafferma la centralità del principio di autodeterminazione, accantonato negli ultimi anni non solo in relazione alla disciplina della pma, ma anche nella dolorosa vicenda Englaro. La Corte consegna una sentenza scritta con grande ponderazione, a giudicare dai due mesi che sono passati dal comunicato della decisione al deposito (9 aprile – 9 giugno), e che è un esempio, a parere di chi scrive, di quella chiarezza e conseguenzialità argomentativa, tanto indispensabili per affrontare questi temi quanto, purtroppo, difficilmente rinvenibili – pur tenendo conto delle differenze fra piano della giurisdizione e quello della normazione – nelle decisioni adottate da qualche decennio dal legislatore italiano.
La scelta di diventare genitori, dice la Corte, “costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi”, riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., in quanto attiene alla “sfera più intima ed intangibile della persona umana”; la limitazione di tale scelta, per le coppie con gravi problemi riproduttivi, può essere ammessa solo se giustificata, alla luce del principio di ragionevolezza, per tutelare un interesse di pari valore costituzionale non altrimenti raggiungibile. In altre parole, il diritto a procreare risulta incoercibile, a meno che non entri in conflitto con un diritto o un interesse di pari rango con il quale deve essere bilanciato. La Corte non si limita ad individuare le direttrici che, in casi come questo, devono essere seguite dalla politica legislativa al fine di colmare spazi lasciati vuoti dalla Costituzione, ma fornisce, riprendendo la propria giurisprudenza, altre indicazioni importanti e afferma che la disciplina della pma incide direttamente sul diritto alla salute “comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica” di coloro, che per problemi di sterilità, devono rinunciare alla genitorialità biologica. Per tale ragione anche la pma eterologa rientra fra quegli atti di disposizione del proprio corpo che, come il cambiamento di sesso, sono rivolti alla tutela della salute e sono limitabili solo se in contrasto con “altri interessi costituzionali”.
Fatte tali premesse, la Corte arriva al cuore del problema, assumendo un tono più esplicito anche nei confronti del legislatore: “un intervento sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, non può nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore, ma deve tenere conto anche degli indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche (…). Pertanto, va ribadito che, «in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali, fermo restando il potere del legislatore di intervenire in modo conforme ai precetti costituzionali»”. Da tali argomenti si trae la conclusione che il divieto di procreazione con gameti esterni alla coppia è il risultato di un “irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco”.
L’esame degli interessi contrapposti porta, infatti, la Corte a considerare quelli della persona nata, che potrebbe subire un danno psicologico connesso alla genitorialità non naturale o avanzare il diritto di conoscere le proprie origini biologiche. In realtà, tali problematiche unitamente ad altre, come l’individuazione di una disciplina di base atta a rendere operative le tecniche di pma eterologa, trovano risposta nell’applicazione di una serie di disposizioni che, ove interpretate sistematicamente, danno soluzione alle questioni poste. Si tratta delle disposizioni che già offrivano una base giuridica per regolare i casi di pma eterologa praticata dai cittadini italiani all’estero e che la Corte trae dalla disciplina di risulta delle legge 40, dai nuovi articoli del c.c. sulla genitorialità (introdotte con il d. lgs. n. 154 del 2013), dal d.lgs n. 191 del 2007, sulla donazione di cellule umane, nonché dagli articoli sull’identità genetica dei genitori, di cui alla l. n. 184 del 1983 sulle adozioni. Tale considerazione permette alla Corte di evidenziare come l’irrazionalità del divieto si traduca in una duplice violazione anche del principio di uguaglianza. La legge 40, infatti, pensata per dare soluzione ai problemi riproduttivi di chi è affetto da problemi di sterilità o di infertilità, finisce per escludere dal rimedio proprio coloro che sono maggiormente colpiti da tali disabilità, vale a dire le coppie totalmente sterili. Per altro verso, la previsione di una regolamentazione degli effetti della pma eterologa praticata in altri Paesi, ancorché necessaria a dare tutela al nato, fa emergere un’altra ragione di “intollerabile” diseguaglianza e cioè l’impossibilità di fare ricorso al c.d. turismo procreativo per le coppie affette da sterilità assoluta e prive di sufficienti mezzi economici.
Quest’ultima notazione, unitamente al richiamo alla disciplina previgente alla legge 40, in base alla quale le tecniche di pma eterologa erano ammesse “senza limiti né soggettivi né oggettivi”, connota il ragionamento della Corte anche di un realismo particolarmente opportuno in considerazione del fatto che tale divieto non solo non è “il frutto di una scelta consolidata nel tempo”, ma non era neppure previsto nel progetto di legge originario; anzi, la sua introduzione è stato il primo segno dell’irrigidimento ideologico della maggioranza parlamentare che ha finito per caratterizzare l’intera disciplina, chiudendola ad ogni possibilità di mediazione e di adeguamento alla realtà.
A poco più di un mese dalla sent. n. 162 del 2014, il realismo e la concretezza, con cui la Consulta – pur riconoscendo l’opportunità di interventi nelle Linee guida – ha predisposto una disciplina “pronta all’uso” e a dare risposte a chi ha già lungamente atteso, corrono il rischio di essere vanificati. Il 26 luglio una commissione di saggi ha consegnato la proposta di aggiornamento delle Linee guida al Ministro Lorenzin per loro adozione, prima della pausa estiva, con decreto legge. Pur condividendo l’urgenza della disciplina, che interviene sull’età dei donatori, sui limiti al loro anonimato e delle donazioni, sul costo del ticket, quello che sconcerta è la determinazione espressa dal Ministro di subordinare l’accesso alla pma eterologa al decreto legge, determinazione che limita, in parte, gli effetti del giudicato costituzionale e che potrebbe creare nuovo contenzioso. Cade il divieto, ma resta l’attesa, anche questa irragionevole, della politica.