Il 4 novembre scorso si sono tenute negli Stati Uniti le consultazioni elettorali di midterm per il rinnovo dei 435 seggi della Camera dei rappresentanti e di un terzo del Senato. Il voto ha riguardato anche la scelta dei governatori di 36 dei 50 Stati membri della federazione. Per il Grand Old Party è stato un grande successo: dopo otto anni il Congresso è stato conquistato dai repubblicani che hanno conservato il controllo della Camera dei rappresentanti e guadagnato la maggioranza al Senato; inoltre, nelle elezioni per i governatori degli Stati il partito dell’elefantino ha sbaragliato gli avversari conquistando anche Stati considerati tradizionalmente delle roccaforti democratiche. Si è aperta così una fase politica nuova, con un presidente democratico che dovrà affrontare gli ultimi due anni del suo mandato da lame duck, anatra zoppa, senza poter contare sull’appoggio di una maggioranza congressuale a lui favorevole.
Un aspetto di queste elezioni che forse non è stato sufficientemente considerato è che esse si sono svolte in un nuovo contesto a causa, da un lato, delle novità concernenti il finanziamento delle campagne elettorali a seguito della pronuncia della Corte Suprema nel caso McCutcheon v. Federal Election Commission, dello scorso 4 aprile e, dall’altro delle modifiche apportate dai comitati nazionali del Partito repubblicano e del Partito democratico alle rispettive regole per lo svolgimento delle primarie.
Il dibattito sulla Campaign Finance Reform si è riacceso proprio in occasione della sentenza McCutcheon v. Federal Election Commission, licenziata all’alba dell’apertura delle campagne elettorali per le elezioni di metà mandato, considerato che su questo tema i giudici supremi avevano già avuto modo di esprimersi nel 2010 in occasione della sentenza nel caso Citizens United v. Federal Election Commission.
Nella sentenza McCutcheon v. FEC, la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale la disposizione del Federal Election Campaign Act 1971 (FECA) che fissa un tetto alle donazioni dei privati per le campagne elettorali (c.d. «aggregate limits»). In passato era stata la stessa Corte, nella decisione Buckley v. Valeo a riconoscere alla disposizione del FECA, oggi dichiarata incostituzionale, la funzione di norma di garanzia contro la pratica dei finanziamenti a pioggia dei privati, in violazione dei limiti prescritti dalla legge (base limits). La Corte non si è tuttavia limitata a rimuovere il limite di $123200 alle donazioni dei privati ai candidati, ai partiti e ai PAC (political action committees), essa ha anche precisato che solo lo scambio corruttivo, e non l’intenzione di voler acquisire influenza presso gli attori politici rilevanti, costituisce illecito. Tuttavia, alcuni limiti alle donazioni sono previsti: i privati possono infatti donare un massimo di $2600 a ciascun candidato per un elezione primaria e la stessa cifra nel caso di una general election, mentre nel caso di donazione ai comitati (50) questa non può superare la cifra dei $10000 dollari per ciascuno. L’effetto che si produce inequivocabilmente è quello di consentire ad ogni facoltoso americano che ne abbia intenzione, di finanziare agevolmente candidati e comitati senza che alcuna limitazione ne ostacoli l’azione volta a garantire la propria influenza a Washington.
In occasione dell’emanazione della sentenza, la Corte si è divisa (5 a 4) ed ha prevalso l’ala ultraliberale interessata a favorire negli Stati Uniti l’affermazione di categorie di interessi forti, piuttosto che contenere i fenomeni corruttivi e garantire la trasparenza del procedimento elettorale.
Nella sentenza vi è un chiaro richiamo al I emendamento della Costituzione, relativo alla libertà di espressione, fondamento della visione conservatrice rispetto al regime sui finanziamenti elettorali. La Corte ha adottato un’interpretazione estensiva della freedom of speech, per legittimare l’azione dei finanziatori delle campagne, facendone derivare un diritto di “liberta’ di finanziamento”. Nella motivazione della sentenza si chiarisce che gli aggregate limits alla quantità di denaro che un finanziatore può donare ai candidati a cariche federali, ai partiti politici e ai comitati di azione politica, non favoriscono l’interesse del governo a prevenire la corruzione mentre limitano la partecipazione al processo democratico e sono, perciò, da ritenersi incostituzionali. A tal proposito, appare interessante il rilievo contenuto nell’opinione dissenziente del giudice Stephen Breyer: “Il primo emendamento si riferisce al diritto di ciascun individuo ad esprimersi in politica ma anche all’interesse pubblico a preservare l’ordine democratico nel quale il diritto di espressione pubblica conta”.
L’estensore dell’ opinion di maggioranza, il Chief Justice Roberts, ha operato un bilanciamento tra la freedom of speech e l’interesse pubblico, sacrificando però l’integrità delle istituzioni esposte ai rischi derivanti dall’afflusso massiccio di capitali privati a sostegno dei candidati che meglio ne possano rappresentare gli interessi a Washington, quasi a voler trasporre nella realtà la fiction del film del 2004 diretto da Jonathan Demme, The Manchurian Candidate, in cui si narra l’ascesa alla presidenza degli Stati Uniti di un candidato sostenuto da potenti gruppi economici privati.
Infine, ancora un richiamo merita l’opinione dissenziente in cui si legge che la sentenza “substitutes judges’ understandings of how the political process works for the understanding of Congress”, intendendo così sottolineare che i potenziali effetti del finanziamento sull’esito di una campagna elettorale sono noti ai politici ben più che ai giudici.
I primi effetti della sentenza McCutcheon v. FEC si sono dispiegati in occasione dell’appuntamento elettorale di metà mandato. I dati resi disponibili dalla Federal Election Commission riferiscono di una diminuzione nel numero dei finanziatori del 20% circa rispetto alla precedente tornata di mid-term del novembre 2010, ma evidenziano la tendenza a donazioni più cospicue rispetto al passato. Se si considera che circa 667.000 finanziatori hanno contribuito alla campagna elettorale donando più di $200 pro capite, mentre la spesa sostenuta dai candidati, dai partiti e dai comitati d’azione politica è rimasta piuttosto stabile attestandosi attorno ai $3,6 miliardi di dollari, è possibile concludere che per queste ultime elezioni le donazioni dei privati sono cresciute in termini di volume. Rispetto al periodo precedente all’emanazione della sentenza della Corte suprema, almeno 498 privati hanno donato somme nettamente superiori a quelle che avrebbero potuto donare prima della rimozione degli aggregate limits da parte dei giudici supremi. I cinque principali finanziatori della campagna elettorale di quest’anno hanno versato circa due milioni di dollari, una cifra impensabile prima della sentenza McCutcheon. Il rapporto della Federal Election Commission non tiene naturalmente conto delle donazioni private pervenute ai PAC, le quali non sono mai state sottoposte ad alcun limite, che sono ammontate a centinaia di milioni di dollari.
Non è difficile concludere che la decisione della Corte Suprema nel caso McCutcheon è destinata a dispiegare anche in futuro effetti importanti sul sistema politico statunitense soprattutto in previsione delle presidenziali del 2016. I partiti non intendono farsi trovare impreparati e a questo proposito il 23 gennaio 2014 il Comitato nazionale del partito repubblicano ha cambiato le regole delle primarie, in modo da accelerare il processo di scelta del candidato e di nomina del vincitore. L’iniziativa consentirà al candidato alla presidenza di disporre molto prima del denaro raccolto per promuovere la sua candidatura in modo da anticipare, e quindi allungare, i tempi della campagna elettorale. Anche il Democratic National Committee ha approvato il 24 agosto 2014 una modifica analoga.
Le modifiche alle regole per lo svolgimento delle primarie e la liberalizzazione del finanziamento privato alle campagne elettorali costituiscono “marchingegni istituzionali” non da poco con i quali il Paese è proiettato verso le presidenziali del 2016, che fanno presagire una non irrilevante trasformazione della politica americana – già caratterizzata dalla forte polarizzazione tra Congresso ed esecutivo – le cui istituzioni rischiano ora di divenire terra di conquista per il miglior offerente.