A quasi due anni dalla data della sua entrata in vigore siamo in grado di tracciare un bilancio piuttosto preciso della cd. “legge Fornero”, di riforma del mercato del lavoro “in una prospettiva di crescita”. Il biennio trascorso ci consegna un bilancio generalmente (e per taluni aspetti pesantemente) negativo delle malriposte ambizioni riformatrici di quella legge, peraltro già oggetto di significativi interventi di modifica e correzione su profili tra i più qualificanti della farraginosa disciplina di asserito riequilibrio tra flessibilità “in entrata” e “in uscita” (basti pensare alle nuove regole sul contratto a termine, esse stesse frutto d’una tormentata evoluzione). Il giudizio è, anzi, in linea generale ancor più critico per le norme a maggiore valenza simbolica di quella legge, visto che la labirintica riscrittura dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, aggravata dall’introduzione d’un lunare rito speciale dai paradossali intenti acceleratori, ha generato una messe di dubbi interpretativi e d’incertezze applicative largamente eccedenti le già modeste capacità di razionalizzazione postuma della giurisprudenza del lavoro.
La stessa riforma degli ammortizzatori sociali (artt. 2 e 3 della legge), che pure ambiva a definire un assetto stabile e coerente, tracciando in particolare un percorso di definitiva fuoriuscita dalla logica perennemente emergenziale della deroga al regime ordinario, ha presto rivelato tutti i suoi limiti, nel perdurare della morsa della crisi economica e occupazionale. L’impianto selettivo e categoriale della Cassa Integrazione Guadagni ordinaria e straordinaria è rimasto pressoché invariato, e le ambizioni universalistiche della riforma si sono in realtà risolte in un’ulteriore spinta alla frammentazione delle tutele, rimesse – nei settori lasciati scoperti dalla legge – alla iniziativa delle parti sociali attraverso l’istituzione di fondi bilaterali di solidarietà.
Al quadro normativo previgente – che già contemplava due modelli significativamente diversi di fondi bilaterali di solidarietà (uno di tipo strutturalmente privatistico, l’altro attratto entro la sfera pubblicistica) –, la legge aggiunge modesti additivi di razionalizzazione/omogeneizzazione regolativa, chiudendo il sistema con la previsione di un fondo residuale presso l’INPS, al quale viene in buona sostanza demandata una funzione di generalizzazione “debole” – di default –della Cassa Integrazione Guadagni per le imprese appartenenti a settori ancora privi di tutela. Neppure l’assicurazione sociale per l’impiego (nella sua versione ordinaria e in quella a requisiti ridotti: la cd. mini-ASPI) riesce evidentemente a raggiungere obiettivi di autentica universalizzazione della tutela previdenziale contro la disoccupazione involontaria. Un tale obiettivo sfugge, infatti, all’impianto assicurativo della tutela, il quale, benché parzialmente mitigato almeno per la mini-ASPI, tuttora seleziona in modo rigoroso la platea dei disoccupati meritevoli di protezione, lasciando naturalmente fuori, com’è nella tradizione del nostro welfare categoriale, oltre agli inoccupati, i soggetti con percorsi marginali e altamente precari che non riescano a maturare neppure il requisito contributivo ridotto. L’area della parasubordinazione resta d’altra parte ghettizzata nello schema del tutto inadeguato della indennità lump-sum.
La registrazione di tali notevoli limiti della legge n. 92 del 2012 induce ora il Governo Renzi a prefigurare, all’interno del cd. Jobs Act (d.d.l. A.S. n. 1428, comunicato il 3 aprile 2014), l’ennesimo percorso di riforma degli ammortizzatori sociali italiani. La proposta di legge delega interviene in materia, all’art. 1, con criteri a largo spettro. Alcuni di essi mirano a perfezionare lo strumentario già introdotto dalla legge Fornero, correggendone o integrandone aspetti più o meno significativi. Altri, invece, vanno in una direzione solo prefigurata dalla riforma del 2012, nel tentativo – più ambizioso e innovativo – di superarne i maggiori limiti d’impostazione.
La legge n. 92 aveva già provveduto a omogeneizzare – unificandoli, a regime, in un’unica prestazione improntata al criterio di equità – gli assai differenti livelli di tutela già riservati ai lavoratori destinatari, rispettivamente, dell’indennità ordinaria di disoccupazione e del trattamento di mobilità. Il disegno di legge delega intende ora rafforzare questa logica, prevedendo una rimodulazione dell’ASPI con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e a quelli a breve, rapportandoli alla pregressa storia contributiva del lavoratore (art. 1, comma 2, lett. b, n. 1). La previsione accentua la connotazione assicurativa della nuova prestazione unitaria di disoccupazione, secondo una linea che il disegno di legge ripropone anche per la Cassa Integrazione Guadagni, laddove si prevede (comma 2, lett. a, n. 4) una revisione dei limiti di durata del trattamento rapportati ai singoli lavoratori e alle ore complessivamente lavorabili in un periodo di tempo prolungato.
Anche la delega sulla universalizzazione del campo di applicazione dell’ASPI (n. 3 della lett. b) si colloca su una linea di perfezionamento della riforma del 2012, portando a compimento (sia pure, se del caso, in via sperimentale) quella estensione della prestazione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che era stata solo prefigurata dalla legge n. 92. E sempre in una linea di sostanziale continuità con quest’ultima è, sul fronte della Cassa Integrazione Guadagni, tanto la norma diretta a impedire l’autorizzazione del trattamento in caso di cessazione di attività aziendale o di ramo di essa (in coerenza con la soppressione della causa integrabile delle procedure concorsuali), quanto quella che intende rimodulare il carico contributivo complessivo gravante sulle imprese, riducendo la contribuzione ordinaria e aumentando opportunamente quella dovuta in caso di accesso alla prestazione. Sono tutte previsioni di delega che, pur non fugando completamente talune perplessità già sollevate per la legge n. 92, hanno senz’altro il pregio della coerenza col disegno riformatore in tal senso solo parzialmente attuato nel 2012.
Ma la parte più problematica del disegno di legge delega sta nella previsioni potenzialmente più innovative rispetto all’impianto attualmente in vigore. La prima è quella che prefigura in modo assai ambiguo, lasciando al legislatore delegato uno spazio amplissimo di discrezionalità, una revisione dell’ambito di applicazione della Cassa Integrazione Guadagni ordinaria e straordinaria e dei fondi di solidarietà di cui all’art. 3 della legge n. 92 del 2012 (art. 1, comma 1, lett. a, n. 7). L’utilizzo dell’anodina espressione “revisione del campo di applicazione”, in lungo della ben più impegnativa formula della universalizzazione viceversa utilizzata (ancorché non del tutto propriamente) per l’ASPI, dischiude invero scenari allo stato non chiaramente predeterminabili. L’ipotesi che ci sembra più ragionevole è che il disegno di legge non intenda accedere ad una logica di piena generalizzazione del campo di applicazione della CIG, esclusa (anzitutto per gli stringenti vincoli di finanza pubblica) già dalla riforma del 2012. Il riferimento esplicito ai fondi bilaterali di solidarietà – nel frattempo istituiti o più semplicemente adeguati dalle parti sociali in ossequio alle previsioni dell’art. 3 della legge n. 92 – lascia piuttosto presagire un’opera di più attenta delimitazione o ricalibratura dei confini tra intervento pubblico e forme collettive di tutela, che lascerà inevitabilmente irrisolto il nodo della incompiuta generalizzazione della CIG.
È tuttavia sul fronte della tutela contro la disoccupazione involontaria in senso stretto che il Jobs Act prefigura le novità più ambiziose, in particolare con due linee di delega. La prima è quella rivolta all’eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASPI, di una prestazione (eventualmente priva di copertura figurativa) limitata ai lavoratori in stato di disoccupazione involontaria che presentino valori particolarmente ridotti dell’ISEE. Se attuata, la previsione comporterebbe l’introduzione di una prestazione di natura assistenziale, secondo un modello (evidentemente diverso dallo schema del reddito minimo garantito) presente in alcuni sistemi europei, avente la funzione di garantire un’integrazione del reddito del lavoratore disoccupato successivamente all’esaurimento dell’ASPI e subordinatamente all’assolvimento, da parte di questo, di obblighi (verosimilmente aggravati) di attivazione. Una previsione del genere, che ha il limite di consolidare la logica selettiva che condizionata l’accesso all’ASPI, ha tuttavia il pregio di prefigurare un forma di sostegno del reddito una volta che sia cessato il trattamento ordinario, con ciò ponendo in essere una delle precondizioni per l’effettivo superamento degli ammortizzatori in deroga previsto dalla legge n. 92 al termine del lungo periodo transitorio dalla stessa contemplato.
La seconda linea di delega, che ha il suo baricentro nell’istituzione d’un’Agenzia nazionale per l’occupazione (art. 2, comma 2, lett. c), ha il merito di affrontare in modo organico la questione cruciale – lasciata inevasa anche dalla legge Fornero, ma evidentemente centrale per realizzare il passaggio ad un welfare attivo di investimento sociale sulle capabilities delle persone – dell’effettivo coordinamento ed allineamento tra ammortizzatori sociali e politiche attive del lavoro. Il progetto di riforma va nella giusta direzione e deve essere senz’altro incoraggiato. Esso sconta tuttavia due principali limiti nell’ambigua impostazione che emerge dal Jobs Act. Il primo è un limite di disegno legislativo e riguarda – a tacer d’altro – l’ambiguità del ruolo della istituenda Agenzia nazionale per l’occupazione, che sembra confusamente concentrare su di sé sia funzioni di programmazione, coordinamento e in senso lato regolatorie, sia competenze propriamente gestionali. Il secondo ripropone un classico limite del riformismo tutto cartaceo e declamatorio del nostro legislatore, che anche in tal caso si affida con falsa ingenuità alla consueta illusione che si possa costruire un sistema di politiche attive del lavoro degno degli standard europei di flexicurity senza prevedere un’adeguata dotazione di risorse finanziarie, strumentali e umane ed affidandosi, ancora una volta, ad una velleitaria e assai improbabile “l’intendance suivra …”.