1. No, non è necessariamente ‘pessimismo della ragione’ il sintagma mancante nel titolo “aperto” prescelto per introdurre queste brevi note sulle prospettive del salario minimo europeo, sorprendentemente rilanciate – dopo decenni di intense quanto infruttuose discussioni – da una proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e della Commissione presentata sul finire dello scorso mese di ottobre. Certo la cautela è d’obbligo, in quanto non mancano nella proposta limiti di carattere contenutistico e giuridico-istituzionale che rischiano di pregiudicarne la portata innovativa, se non addirittura la stessa possibilità di essere adottata da Parlamento e Consiglio. E tuttavia, sarebbe errato sottovalutare il valore politico di una iniziativa regolativa “audace” con la quale la nuova Commissione ha inteso se non abbandonare l’ossessione della ‘wage moderation’ pervicacemente coltivata nei “semestri” della crisi, quantomeno affiancarvi una azione di contrasto ad una in-work poverty ritenuta indifferibile in un tempo in cui la pandemia ha accelerato la fine dell’equazione ‘lavoro=non povertà’. Uno sviluppo di indubbio rilievo, questo, ancor più significativo ove letto in combinato disposto con le diverse iniziative che contemporaneamente hanno iniziato a muoversi in campo europeo nel campo delle misure di contrasto alla povertà (non lavorativa).
2. È probabilmente noto ai più, ma vale forse la pena ribadire, che la proposta europea sul “salario minimo adeguato” nulla ha a che vedere con l’idea di un “salario minimo legale europeo”, ovvero con la determinazione a livello sovranazionale di un valore-soglia unico destinato a prevalere con la forza del diritto europeo sulle diverse determinazioni nazionali. Né si tratta di uno strumento mirato ad introdurre meccanismi di determinazione legislativa dei salari minimi in quei pochi paesi dell’Unione (Italia, Austria, Cipro, Danimarca, Svezia, Finlandia) ove tali meccanismi allo stato non esistono.
Si tratta invece di qualcosa di più e al contempo di qualcosa di meno.
2.1. Di più, perché la proposta ha, almeno nelle intenzioni, un carattere “sostanzialistico” che più che sul primo attributo inserito nella sua intestazione – salario minimo – poggia sul secondo: ovvero il carattere adeguato dello stesso. E il perché è presto detto: ove proiettata su scala europea, la determinazione legislativa dei minimi salariali risulta condizione né sufficiente né necessaria a garantire agli occupati uno standard di vita “dignitoso”.
Non sufficiente, nella misura in cui impietose statistiche certificano che la presenza in 21 Stati membri su 27 di meccanismi legislativi di fissazione dei salari minimi, ultima arrivata nel 2015 la Germania, non è stata sin qui sufficiente a contenere la percentuale di working poors – o più esattamente di low-wage earners così come misurata dall’Eurostat, ovvero di coloro che percepiscono meno di 2/3 del salario mediano lordo – ferma da anni ad un preoccupante 15% su scala UE. Non necessaria, perché non è affatto escluso che, come la proposta espressamente riconosce, salari adeguati possano essere assicurati, in assenza di meccanismi di determinazione eteronoma degli stessi, dalla autonomia collettiva delle parti sociali, come i gloriosi esempi scandinavi stanno lì da tempo a testimoniare.
2.2 La proposta di Direttiva è però anche qualcosa di meno di un “vero” salario minimo, nella misura in cui manca nel testo ogni riferimento alla dimensione quantitativa che inevitabilmente si associa alla stessa idea di una soglia retributiva dalla quale in nessun caso sia dato derogare. Nell’epoca del ‘governo dei numeri’ e della razionalità regolativa affidata agli indicatori, un criterio cogente per definire il minimo salariale nella proposta non c’è. O meglio, c’è solo un timido accenno – prudentemente confinato nei considerando iniziali – agli indicatori da tempo utilizzati in sede internazionale (60% del salario lordo mediano e/o 50% del salario lordo medio), rispetto ai quali la proposta si preoccupa però di precisare che essi possano al più rilevare quali “valori di riferimento indicativi” (art. 5.3).
2.3. Tra il “più” e il “meno” come sopra sommariamente descritti, si colloca il contenuto dispositivo della proposta, chiaramente condizionata dalla consapevolezza della Commissione di dover fare i conti con una inedita coalizione di oppositori composta da tutti i soggetti che, di norma, assumono nei confronti della legislazione sociale europea atteggiamenti diversificati. L’iniziativa della Commissione sul salario minimo ha invece costituito, almeno agli esordi, un raro esempio di Direttiva sociale che per motivi diversi è stata avversata da tutti: dai sindacati, in prima fila quelli “nordici”, storicamente diffidenti nei confronti di interventi eteronomi in grado di incidere sulle autonome dinamiche negoziali in materia salariale; dalle organizzazioni datoriali europee, che non hanno esitato nell’occasione a replicare la nota preferenza verso misure non-binding; infine dagli Stati membri, alcuni dei quali soltanto gelosi delle rispettive prerogative su una materia di così evidente impatto sulle economie nazionali, ed altri del gruppo Visegrad risolutamente avversi ad ogni regolazione sovranazionale in grado di ridurre quei differenziali salariali – allo stato oscillanti in un rapporto da 1 (Bulgaria) a 4 (Danimarca), pur tenendo conto dei differenti poteri di acquisto – sui quali sono fondati i loro vantaggi competitivi nel mercato interno dei servizi.
2.4. È in questo contesto non certo favorevole alla adozione di una normativa sovranazionale, che la Commissione ha identificato alcuni profili di intervento ritenuti ragionevolmente praticabili e politicamente compatibili. In estrema sintesi, la proposta viene indirizzata a due distinte platee di destinatari, individuate in ragione della rispettiva appartenenza a due modelli di determinazione dei minimi salariali il cui mantenimento non viene minimamente rimesso in discussione.
Da una parte, i sei stati membri ove la individuazione dei minimi è affidata alla contrattazione collettiva, ai quali non viene chiesto di abbandonare il proprio modello negoziale ma solo di incrementarne l’effettività, in particolare aumentandone il tasso di copertura nelle ipotesi in cui questo risulti inferiore al 70% (secondo recenti indagini dello European Trade Union Institute, il tasso medio di copertura in EU27, collocato al 73% nel 2000, risulta oggi assestato sulla misura del 61%). Si tratta di una condizione di non agevole interpretazione in paesi, come l’Italia, ove il tasso di effettiva applicazione di un medesimo contratto collettivo può risultare notevolmente diverso in ragione di differenze territoriali e/o della dimensione dell’impresa, per non parlare dei problemi insiti nella moltiplicazione di contratti collettivi più o meno “pirata” nell’ambito di un medesimo settore produttivo (v. l’articolo di M. Faioli). In ogni caso, utili impulsi alla razionalizzazione, o quantomeno un forte incentivo verso una auspicabile “auto-analisi”, dei sistemi nazionali di contrattazione collettiva potranno di certo derivare dalle puntuali indicazioni contenute nell’art. 10 della Proposta, alla luce delle quali gli Stati membri sono chiamati a fornire alla Commissione dettagliate informazioni circa “la distribuzione in decili di tali salari ponderata in funzione della percentuale di lavoratori coperti” e “il livello dei salari dei lavoratori che non beneficiano della tutela garantita dal salario minimo fornita da contratti collettivi e il suo rapporto con il livello dei salari dei lavoratori che beneficiano di tale tutela minima”. Si profila dunque un periodo di intenso lavoro per statistici, sociologi ed economisti del lavoro; ma anche per i giuslavoristi, chiamati a chiarire – una volta per tutte, si direbbe – se tutti i contratti collettivi possano ugualmente concorrere al raggiungimento della soglia del 70% prospettata dalla proposta, e se i minimi salariali individuati dai contratti collettivi stipulati da organizzazioni, sindacali e datoriali, scarsamente rappresentative possano o meno essere utili per misurare l’area dei lavoratori che “beneficiano della tutela garantita dal salario minimo fornita da contratti collettivi”.
La seconda platea di destinatari della proposta è invece costituita dai 21 Stati membri ove allo stato vigono meccanismi legislativi di determinazione dei minimi salariali, ovvero da quelli che in futuro – e indipendentemente dalla Direttiva, che non lo impone – dovessero decidere di abbandonare la prima platea per collocarsi nella seconda (categoria, quest’ultima che riguarda essenzialmente l’Italia, assunto che, per motivi diversi, è piuttosto improbabile che i paesi nordici o l’Austria decidano di abbandonare le rispettive tradizioni negoziali). In questi casi, come già anticipato, la proposta di Direttiva, escluso che la sussistenza di meccanismi di salario minimo legale possa considerarsi di per sé garanzia di salari “adeguati”, impone sostanzialmente due ordini di misure: agganciare la determinazione e l’indicizzazione di minimi salariali a criteri certi, tra i quali si menziona anche, ma non solo e non necessariamente, il parametro del 60% del salario mediano (art. 5); e coinvolgere effettivamente le parti sociali nel processo di individuazione e aggiornamento delle soglie salariali minime. Disposizione, questa, di indubbio impatto nei paesi dell’Europa centrale e orientale di più recente accessione, dove il tripartitismo “importato” nella fase della transizione democratica è rimasto solo un vuoto omaggio a modelli di ispirazione OIL resi impraticabili da una situazione di estrema e perdurante debolezza sindacale.
3. A voler essere impietosamente obiettivi, si farebbe presto a dire che ciò che nella proposta di Direttiva manca (introduzione di un vero salario minimo legale, efficacia erga omnes dei minimi contrattuali, fissazione di una soglia minima conforme ai parametri internazionalmente accolti), è decisamente superiore a ciò che la proposta contiene (ovvero un auspicato efficientamento di modelli nazionali che rimangono sostanzialmente impregiudicati). E a voler aggiungere un ulteriore elemento di perplessità, non si potrebbe non ricordare come la stessa sorte istituzionale della proposta sia piuttosto seriamente minacciata da un problema attinente alla sussistenza delle basi giuridiche che devono sostenere ogni azione regolativa dell’Unione. Basi giuridiche che, sulla scorta del principio delle competenze enumerate, dovrebbero essere rinvenute in un Trattato che però, all’art. 153.5, esclude espressamente la competenza dell’Unione in materia di “retribuzioni”. È vero che una pregressa giurisprudenza della Corte di Giustizia autorizza margini interpretativi in grado di legittimare un’azione dell’Unione non direttamente rivolta, come in effetti la proposta non fa, a determinare il livello dei salari. Ma non v’è dubbio che anche di base giuridica si discuterà nel corso di un processo decisionale che si preannuncia sicuramente come non agevole.
Nondimeno, nemmeno le ricordate vaghezze contenutistiche e le prevedibili incognite istituzionali riescono ad oscurare il significato politico di una iniziativa che, nel cuore di una emergenza pandemica, si distacca dal paradigma della wage moderation e dall’ortodossia del trade-off negativo tra salari minimi e occupazione, per avviare invece una politica dei salari esplicitamente orientata al perseguimento di norme (art. 31 della Carta dei Diritti Fondamentali UE) e principi (Principio n. 6 del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali) volti ad assicurare retribuzioni eque e condizioni di vita dignitose. Certo sarebbe eccessivo ritenere che nelle stanze di Palazzo Berlaymont abbia improvvisamente risuonato un “Siamo realisti, esigiamo l’impossibile” che ha indotto la Commissione a sfidare il principio di realtà nel nome di una insospettata sensibilità sociale. E tuttavia non sarebbe irragionevole pensare – nel contesto di un più generale ripensamento, si spera non unicamente legato alla pandemia, degli orientamenti della Commissione – che nel “vorrei ma non posso” che traspare dalla proposta sul salario minimo il “vorrei” conti più del “non posso”, il simbolo pesi più del segno, il viaggio prevalga sulla meta: se hace camino al andar.