1. Nel 2016 il principale sindacato italiano ha promosso la raccolta delle firme su di un quesito referendario poi intitolato dall’Ufficio centrale per il referendum come “abrogazione disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi”. Con tale quesito si chiedeva l’abrogazione di due gruppi di disposizioni, con ambiti applicativi differenti, regolanti complessivamente i due binari paralleli di disciplina degli strumenti di tutela del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi. Il comitato promotore chiedeva in particolare l’abrogazione di alcuni frammenti delle disposizioni riunite nell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori, modificato dalla legge n. 92 del 2012, cd. legge Fornero), nonché dell’intero testo del decreto legislativo n. 23 del 2015 (disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti – attuativo del Jobs act).
Questo primo dato già avrebbe potuto indurre a dubitare dell’ammissibilità di un quesito così formulato, dovendosi tener conto del requisito dell’omogeneità posto dalla Corte costituzionale tra i limiti all’ammissibilità del referendum elaborati nella sua oramai quasi quarantennale giurisprudenza in materia, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978.
Il criterio dell’omogeneità richiede, infatti, che non si riuniscano in un unico quesito più disposizioni aventi oggetto diverso, sulle quali l’elettore potrebbe voler esprimere il proprio voto in modo difforme. Ciò a tutela della libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (“il voto è personale ed eguale, libero e segreto”), dovendosi intendere tale libertà non solo in senso fisico, ma anche come libertà da ogni coartazione nell’esercizio voto.
A tali considerazioni, relative all’inammissibilità del quesito che riuniva due distinti complessi normativi (il sistema “a tutele crescenti” e la disciplina “Fornero”), si deve poi aggiungere che il richiamato decreto legislativo n. 23, di cui si chiedeva l’integrale abrogazione, disciplina con riferimento ai lavoratori a tempo indeterminato assunti in data successiva al 7 marzo 2015, differenti oggetti: il licenziamento individuale e collettivo, discriminatorio o nullo, le ipotesi del reintegro del lavoratore e la misura delle indennità (crescenti al crescere dell’anzianità nel rapporto di lavoro) dovute dal datore di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo, nonché il rito applicabile (escludendo per i lavoratori a “tutele crescenti” l’applicabilità del rito previsto dalla “legge Fornero” per i lavoratori cui si applica invece l’art. 18). Per quanto concerne la disciplina posta dall’art. 18, a seguito delle modifiche intervenute, essa può a sua volta essere scissa in base all’ambito applicativo in almeno tre versioni: pre 2012, 2012-2015, post 2015.
Come si vede, le possibili opzioni dell’elettore rispetto ai differenti contenuti normativi da abrogare erano innumerevoli. Stando dunque al ragionamento che la Corte viene svolgendo, da molti anni, in relazione alla necessità di tutela della libertà dell’elettore nell’espressione del voto sul referendum, era quindi difficile ritenere che la formulazione di questo quesito potesse non arenarsi nelle secche dell’inammissibilità.
2. Perché si è scelta dunque una simile formulazione del quesito, tra le tante possibili? Sembrerebbe di poter desumere che i promotori, nel formularlo, abbiano incentrato la loro attenzione prevalentemente sulla normativa di risulta, piuttosto che sull’omogeneità del quesito, ponendo quindi l’accento sul momento ricostruttivo di una nuova disciplina, privilegiando quindi la prospettiva della proposta politica, piuttosto che quella tecnico giuridica.
Bisogna ammettere tuttavia, che nel fare ciò, essi hanno tratto spunto dalla pregressa giurisprudenza costituzionale, che ha messo i promotori in una difficile condizione. Tra gli altri criteri del giudizio di ammissibilità, la Corte ne ha infatti elaborati alcuni più discutibili, come quello della omogeneità-completezza (consistente, in estrema sintesi, nella raccolta nel quesito di tutte le disposizioni presenti nell’ordinamento che contribuiscano a delineare la disciplina dell’istituto da abrogare) e della univocità del quesito, che spingono i promotori a perseguire il risultato di una normativa di risulta auto applicativa e che non richieda interventi successivi del legislatore sulla materia. Tali criteri costringono dunque i promotori a costruire il quesito sulla base dell’esito legislativo da produrre, senza avere tuttavia a disposizione gli strumenti del legislatore. A dimostrazione di ciò sta l’affermazione svolta dinanzi alla Corte, con cui essi hanno dichiarato che “Il sì al quesito lascerebbe in vigore (quale normativa di risulta) una disciplina precisa e rigorosamente unitaria, incentrata sulla tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro per la generalità dei licenziamenti illegittimi, in tutti i casi in cui il datore di lavoro occupi alle sue dipendenze più di cinque lavoratori”(punto 4 della motivazione in fatto).La preoccupazione è quindi tutta sull’esito, sul suo innesto nel tessuto legislativo, ma il quesito che si viene così a costruire a tutti gli effetti appare frutto di una proposta politica, più che esercizio di quel diritto che l’articolo 75 Cost. disegna sì in termini scarni ed essenziali, ma che consiste pur sempre nel chiedere “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge.”
3. La reductio ad unum della disciplina di risulta non è valsa dunque a cancellare la natura composita della disciplina di cui si chiedeva la sotto posizione ad abrogazione referendaria.
La sentenza n. 26 del 2017 ha quindi dichiarato inammissibile la richiesta referendaria sulla base del suo difetto di omogeneità, nonché della sua natura propositiva e manipolativa. Questo secondo aspetto deriva dal ritaglio normativo operato sul testo dell’art. 18 (sul quale sembra essersi incentrata prevalentemente l’attenzione della Corte) col quale i promotori, chiedendo l’abrogazione di singoli frammenti lessicali, miravano a produrre una disposizione che rendesse applicabile la tutela reale del reintegro del lavoratore licenziato ad un ambito diverso e più esteso (le imprese con più di 5 dipendenti) da quello già previsto. In questo modo, la natura sostanzialmente creativa, derivante dalla scelta di una soglia applicativa nuova, comportante quindi una valutazione discrezionale propria della funzione legislativa più che referendaria, si è aggiunta agli altri profili di inammissibilità.
Il riferimento al precedente della sentenza n. 41 del 2003, di ammissibilità di un referendum abrogativo sullo stesso articolo 18, che secondo i sostenitori dell’ammissibilità avrebbe dovuto giocare a favore dell’odierno quesito, è valso solo ad ulteriore riprova della disomogeneità di quest’ultimo: allora si chiedeva solo di estendere a tutti (eliminando le soglie numeriche diversificate per categoria di impresa) la tutela reale prevista dall’art. 18. Oggi si chiede di modificare la soglia (portandola a 5 dipendenti), di intervenire sulla disciplina sopraggiunta, in parte modificandola, in parte cancellandola. Troppe scelte e troppa innovazione per un solo quesito.
La Corte ha ritenuto cioè che introdurre tale nuova soglia, non desumibile dalla norma vigente, neanche nelle sue precedenti versioni, come soglia dimensionale generale, applicabile a tutti i tipi di imprese, abbia portato il quesito a varcare la soglia della “manipolatività ammissibile” (che riespande cioè norme o principi già presenti nella legislazione), portandolo ad una “manipolatività inammissible”, comportante la creazione di contenuti normativi del tutto nuovi rispetto a quelli preesistenti. L’individuazione del sottile confine tra quesiti manipolativi ammessi e non ammessi è operazione invero difficile per i promotori,come già si era detto a commento del precedente che la Corte stessa oggi evoca(sentenza n. 36 del 1997, con mio commento in Giur. Cost. 1997, 322).
4. La radice dei problemi che emergono in questa decisione, dunque, a parte una qualche leggerezza che emerge forse in relazione alla redazione del quesito da parte dei promotori, è da rinvenire proprio nella complessa giurisprudenza della Corte sull’ammissibilità dei referendum. Come in altri ambiti (vedi la materia elettorale), anche qui si assiste ad una tendenza del giudice costituzionale ad auto assumersi oneri e responsabilità di supplenza, derivanti dall’inerzia delle istituzioni politiche e in particolare del legislatore parlamentare.Ciò sembra averla indotta a costruire una casistica dei limiti all’ammissibilità del referendum che grava i promotori di un compito difficilissimo. Il vero e proprio horror vacui che sembra affliggere la Corte in riferimento al prodursi di vuoti nell’ordinamento, o anche solo alla necessità di un intervento del legislatore di “manutenzione” del tessuto legislativo a seguito del referendum, la spinge a richiedere indirettamente ai promotori l’impossibile. Da un lato essi sono indotti alla costruzione di quesiti manipolativi, che tramite la tecnica del ritaglio normativo, portino alla costruzione di norme di significato diverso da quelle di partenza, pur di non procedere ad una abrogazione tout court che lasci una lacuna nell’ordinamento. Da questo punto di vista viene da chiedersi se non si sarebbe potuto meramente e semplicemente chiedere l’abrogazione di una delle due disposizioni chiave della disciplina che ha ridotto la tutela reale contro il licenziamento illegittimo, lasciando al legislatore poi il compito di procedere per dare seguito alla volontà molto chiara del corpo elettorale che ne sarebbe derivata (e ciò anche alla luce dell’art. 37 della legge n. 352 del 70 sul referendum, che consente al Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, di “ritardare l’entrata in vigore della abrogazione per un termine non superiore a 60 giorni dalla data della pubblicazione”). Per altro verso, la pretesa della Corte rispetto al criterio dell’omogeneità-completezza del quesito, con cui si chiede da molti anni che i promotori passino al vaglio e “ripuliscano” tutto l’ordinamento, riunendo nel quesito ogni disposizione collegata o parzialmente riproduttiva di quella da abrogare, li costringe ad un’impossibile operazione di ricognizione del tessuto normativo, che potrebbe forse essere ritenuta alla base dell’eccesso di zelo che ha, in questo caso, fuorviato i promotori del quesito sull’art. 18.
Non resta da dire che ad impossibilia nemo tenetur insomma. Ciò vale per i promotori, che non sempre sanno esercitare al meglio i compiti predittivi circa gli orientamenti di una spesso mutevole giurisprudenza costituzionale sui limiti di ammissibilità del referendum, così come non possono, tramite la formulazione di un quesito, riportare a coerenza un panorama legislativo caotico dove la produzione alluvionale di corpi normativi disorganici rende il compito dell’interprete sempre più arduo. Ma il brocardo vale ancor più per la Corte, che non deve smettere di essere giudice costituzionale, addossandosi e addossando oneri impropri, per essere supplente, tutore e guida di un sistema politico inerte, o di un Parlamento paralizzato. Il rischio che si intravede non è tanto quello di un tempo, lo spettro del gouvenement des juges, quanto la perdita di legittimazione della giustizia costituzionale, male da evitare con ogni mezzo, a maggior ragione in un’epoca di crisi come quella che viviamo.