Per un lungo tempo lo studio delle élite politiche è stato oggetto di esclusivo interesse da parte delle scienze politiche, della sociologia, dell’antropologia. Solo in anni più recenti le élite politiche hanno fatto il loro ingresso nel campo di analisi dell’economia, la quale ha riconosciuto il ruolo dell’interazione tra politica ed economia, ed ha cercato di qualificare il primo dei due termini, attraverso considerazioni sulla qualità dei soggetti politici. In alcune aree, come quella del Mezzogiorno, l’adeguatezza delle classi politiche e dirigenti, è uno dei maggiori limiti o addirittura ostacoli – a seconda dell’angolazione di analisi – all’efficacia delle azioni per lo sviluppo. Diventa pertanto fondamentale interrogarsi sulla qualità delle élite politiche, letta non solo attraverso le doti e l’integrità morale, ma attraverso un dato più misurabile e circoscritto, quello delle dotazioni cognitive dei politici (le competenze).
Questo pezzo della società, è un pezzo molto importante, per almeno due ragioni: a) perché fa le leggi (e le policies); b) perché condiziona la formazione delle altre élite.
La crisi del 2008, ancora in corso, ha peraltro affermato il primato della politica sull’economia, a dispetto di chi professa che i mercati sono in grado di funzionare perfettamente, basta lasciarli a sé stessi. Si è invece avuta una riscoperta delle ricette keynesiane e la centralità dell’interventismo nell’economia.
La crisi ha infatti mostrato l’inconsistenza e soprattutto la pericolosità di credere incondizionatamente al libero mercato, e ha richiesto un forte intervento da parte degli Stati e delle autorità regolative. Si sono richieste l’urgenza di una maggiore regolamentazione dei mercati finanziari, oramai senza controllo, e la necessità di riavviare la crescita, per rianimare un sistema produttivo decimato dalla crisi, e recuperare occupazione e redditi perduti.
Queste regole chi le fa se non la politica? Chi decide l’ammontare della spesa pubblica e i settori da sostenere (le policies) se non la politica?
Ma per saper scrivere le leggi e fare buone politiche, occorrono élite politiche capaci e competenti. Le leggi e le politiche, sono per loro natura scelte collettive, cioè incidono sugli interessi di innumerevoli categorie di persone. Fare delle buone scelte richiede una capacità di raccogliere ed elaborare informazioni vaste e complesse, non solo sapere rispondere e collocarsi rispetto agli interessi determinati dal momento storico: il rischio è che si facciano scelte non “ottimali”, scelte che non siano sufficientemente egualitarie, che non risultino inclusive, o che pieghino l’interesse collettivo all’interesse di “gruppi”, garantendo la produzione di beni di club e non di beni collettivi. E’ sulla capacità di rispondere ai bisogni più diffusi e di tutti che si gioca il rinsaldamento dell’etica politica con la società civile.
Le élite politiche condizionano il formarsi dell’altro “tipo” di élite del paese, le élite “dirigenziali”: è facile aspettarsi che classi politiche di bassa qualità siano orientate a scegliere classi dirigenti di bassa qualità – o per convenienza, cioè perché più facilmente rese organiche ai propri obiettivi, oppure per incapacità di scelta. Anche qui c’è un problema etico, se le classi dirigenti vengono a essere scelte sulla base di criteri “altri” rispetto a quelli di tipo “meritocratico”.
Alcuni dati sul livello di istruzione delle élite politiche ci dicono che la qualità delle élite politiche italiane è mediocre. La percentuale di nuovi eletti al Parlamento italiano in possesso di una laurea, pari al 91,4% all’inizio della I Legislatura, è andato decrescendo costantemente nel tempo, ed era soltanto pari al 64,4% nel 2006* . E’ difficile immaginare che questa percentuale si sia ridotta negli ultimi tempi, mentre al contrario è più probabile che sia peggiorata, dato che il nostro Parlamento è popolato di soubrette, faccendieri e parlatori, più che di professori e professionisti del loro mestiere.
Poiché riteniamo che vi è una correlazione positiva tra il livello d’istruzione e le competenze possedute, possiamo affermare che la qualità della classe politica italiana è decisamente peggiorata. Tale passaggio peraltro avviene nella metà degli anni ’80 (vedi figura 1), quando, con l’avvento dell’era craxiana, si afferma la “personalizzazione” della politica, oggi all’apice della sua espressione.
Negli altri Paesi, non è così. Negli Stati Uniti, per esempio, la quota degli eletti al Congresso con un livello di istruzione corrispondente alla laurea italiana (il college degree) è invece cresciuta nel tempo, passando dall’88,5% del 1947 al 93,9% del 1993 (figura 2).
Figura 1 – Percentuale in possesso della laurea di eletti alla Camera dei Deputati (1948-2006)
Fonte: Galasso, Landi, Mattozzi, Merlo (2009)
Figura 2 – Percentuale in possesso della laurea eletti alla House of Representatives (percentuali, 1947-1993)
Fonte: Galasso, Landi, Mattozzi, Merlo (2009)
Ciò è molto preoccupante per il futuro del paese. In un momento nel quale sono in crisi i luoghi tradizionali di maturazione civile ed etica della società italiana, cioè la famiglia, la Chiesa, e i partiti politici, la scuola e l’università sono rimasti gli unici luoghi di crescita civile. Il risultato netto di avere élite politiche poco istruite è un impoverimento civile complessivo. Aumentare lo spessore delle conoscenze infatti non solo aumenta la quantità di cose che sappiamo, ma aumenta anche e soprattutto la qualità umana, la coscienza di sé all’interno della società, aumenta l’etica individuale e collettiva.
* I dati sono tratti da uno studio di Galasso V., Landi M., Mattozzi M., Merlo A., (2009), The Labor Market of Italian Politicians, in “The Ruling Class: Management and Politics in Modern Italy“, a cura di Boeri T., Merlo A., Prat A. (2010), Oxford University Press.
Sembra evidente che esista una correlazione tra la diminuzione del livello di istruzione dei nostri deputati e la perdita di qualità della politica, ma direi che il rapporto causale sostanziale sia dal secondo al primo di tale elementi, nel senso che in realtà la diminuita qualità dei nostri parlamentari, di cui il minore livello di istruzione è solo uno degli indici, dipende dalla distorsione e inefficienza dei criteri di selezione della rappresentanza politica, e parlamentare in particolare. Del resto anche nell’articolo viene rilevato che élite politiche di bassa qualità sono orientate a scegliere classi dirigenti di bassa qualità e gli attuali parlamentari spesso neanche potrebbero ritenersi parte della classe dirigente in senso proprio.
Sono daccordo che il modo in cui viene selezionata la classe politica – e qui certamente concorrono il ruolo combinato di legge elettorale (assenza delle “preferenze”) e meccanismi di selezione interni dei partiti – autoriproduce questa situazione e ne sono la causa endogena. Vi sono anche cause esogene, che però i meccanismi interni dovrebbero correggere, ma al contrario, ne accentuano ed esaltano la portata. Luca Murrau